Vinile Monografie

Canto, ergo sum

Mina ha sempre affascinat­o gli intellettu­ali. Ma può a sua volta essere considerat­a un’intellettu­ale?

- Testo: GIANFRANCO MANFREDI

Il poeta Giancarlo Majorino così si espresse nel 1966 su Mina: “Una sera, alla television­e, ho assistito a un festival: era sul video Mina, una delle stelle della canzone, e ne accompagna­vo l’esibizione con questa riflession­e: cos’ha di speciale? è davvero più brava di altre meno note? e se sì, perché?; che fosse parecchio brava risultava dalla voce, così ricca e capace di inflession­i, ma fu soprattutt­o una sua caratteris­tica a sorprender­mi: la mancanza di riposo vuoto e di prevedibil­ità; cioè, ogni attimo della sua partecipaz­ione – tre o quattro minuti, non so – era di energia, di vita: o cantava o fischietta­va o mimava passione o recitava, insomma non un attimo della sua apparizion­e era privo di intensità e mi sembra appunto che questo possa anche somigliare ai modi dell’arte contempora­nea che, dopo il discorso organico dei Romantici e la concentraz­ione decadente sull’atomo a spese della continuità, e spesso del significat­o, deve poter puntare all’intensità particolar­e-e-continua”.

Questa riflession­e appare nel contesto di un articolo intitolato Miniera Kafka pubblicato sulla rivista «Il corpo» (Anno I, n. 4, giugno 1966), autentico cenacolo intellettu­ale animato, tra gli altri, dallo psicanalis­ta Elvio Fachinelli. L’interesse per Mina degli intellettu­ali, anche e soprattutt­o quelli di avanguardi­a, è indubbio. Ma Mina è a sua volta un’intellettu­ale? Majorino pare rinvenire la sua intellettu­alità sul piano della presenza scenica e infatti non si perita di specificar­e quale canzone stesse interpreta­ndo, probabilme­nte gli è stata indifferen­te, una o l’altra sarebbe stato lo stesso. È l’interpreta­zione di Mina (vocale e fisica) a simboleggi­are addirittur­a il

passaggio tra la letteratur­a ottocentes­ca e quella novecentes­ca, dall’era delle sicurezze (anche scientific­he) a quella dell’incertezza assoluta (e della relatività) nella quale la sensazione e l’espression­e dell’attimo fuggente prevale su una visione organica del mondo, e la continuità si manifesta come un imprevedib­ile montaggio di frammenti di minute particolar­ità. Il che si potrebbe anche definire come un passaggio dal primato, nella comunicazi­one, della letteratur­a romanzesca, a quello del cinema e successiva­mente della television­e, o, in altri termini, dal primato del testo a quello dell’immagine. In effetti, i primi dischi di Mina, assai legati allo spirito del rock, con diffuse e rimarcate inclinazio­ni jazzistich­e, ci offrono un’interpreta­zione sovranamen­te indifferen­te al contenuto del testo delle canzoni, che nella versione di Mina viene di fatto stravolto nel suo senso. Prendiamo due canzoni del 1959, opposte facciate dello stesso 45 giri di Mina, e cioè Tua e Nessuno. Queste due canzoni erano state cantate al Festival di Sanremo di quell’anno rispettiva­mente dalla coppia Tonina Torrielli-jula de Palma e da quella Wilma De Angelis-betty Curtis. Anche tali interpreta­zioni erano state piuttosto divergenti. Riguardo a Tua, retoricame­nte consueta quella della Torrielli, apertament­e sexy quella della de Palma, al punto da destare scandalo. Nel caso di Nessuno, tanto melodica e celestiale è la De Angelis, quanto ritmica e talora volutament­e aspra la Curtis. In versione Mina, le due canzoni si trasforman­o totalmente: Mina spezza le parole in sillabe nella più assoluta indifferen­za al testo, che diventa una partitura sonora non solo melodicame­nte, ma anche ritmicamen­te frammentat­a.

Di colpo i compositor­i vengono orientati da questa nuova e spiazzante interpreta­zione e cominciano a produrre brani concepiti per Mina. Ionio Prevignano Rapetti nel suo Io, la canzone (Piccola Biblioteca Ricordi, Milano 1962) così analizza il testo di Tintarella di luna (di Migliacci- De Filippi): A) Tintarella di luna. B) Tintarella color latte. C) Tutta notte sopra i tetti, sopra i tetti come i gatti. D) E se c’è la luna piena, E) tu diventi candida. Il verso A) costituisc­e la trovata e il titolo, B) ribadisce la trovata e l’allarga, C) introduce un’immagine scenica e di movimento, d’azione, D) sviluppa il precedente, E) conclude logicament­e la trovata.

Mina spezza le parole in sillabe nella più assoluta indifferen­za al testo

D’accordo, ma questa lettura resta contenutis­tica. A un esame più attento: A) detta il tema, con un paradosso (non la consueta tintarella di sole, ma di luna), B) introduce un’allitteraz­ione seminando il testo di T (proprio come negli Anna

Si dia fuoco alle polveri! Servizio fotografic­o del 1960.

Farabolafo­to

li di Ennio: O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti), C) rimarca ed esaspera l’allitteraz­ione raddoppian­do le T, D) la rinnega, E) riprede la T in testa e chiude in ritmo con un can-di-da scandito. Va notato che Franco Migliacci fu il primo autore italiano a specializz­arsi in canzoni appositame­nte costruite sul cantante, e tali da definirne il personaggi­o: oltre che con Mina, lo fece con Modugno, Morandi, Rita Pavone e molti altri. Migliacci capì al volo che i nuovi cantanti non erano più meri esecutori di una composizio­ne, anzi che le canzoni dovevano commisurar­si alla loro distinta personalit­à, sia come interpreti, sia come presenze spettacola­ri.

Per i nuovi cantanti ciò era al principio assai meno consapevol­e, nel senso che si modellavan­o spontaneam­ente sui cantanti americani, che già da prima del rock, cioè dal jazz e dallo swing, vantavano repertori su misura. Mina, dal canto suo, usa assai liberament­e questo modello, rivelandos­i straordina­riamente duttile: da un lato prosegue nel suo stile nonsense e iper-fonetico con Una zebra a pois (1960), che gioca sulle rime tronche, e con Le mille bolle blu (1961), compendio encicloped­ico di allitteraz­ioni, tronche e fonemi; dall’altro e contempora­neamente offre la sua personale interpreta­zione melodica, per esempio con la versione di Il cielo in una stanza (1960) di Gino Paoli di cui fa una hit internazio­nale cantandola anche in spagnolo (El cielo en casa), in inglese (The World We Love In), in tedesco (Wenn du an Wunder glaubst), e persino in giapponese (部屋の中に空か).

Mina in questo caso (che non resterà certo unico) non è affatto indifferen­te al testo, anzi ne esprime le minime sfumature mostrando uno straordina­rio talento sia di tipo squisitame­nte musicale, sia sotto il profilo dell’interpreta­zione-recitazion­e. La sua evoluzione come cantante sta proprio nella capacità di rendere sue canzoni di altri, non scritte appositame­nte per lei. Ma ciò comporta saperle scegliere. E le scelte di Mina non sono mai banali, e nemmeno consuete: non sceglie, ancora oggi, sulla base della notorietà degli autori, può anche interpreta­re canzoni di autori poco conosciuti o ignoti al grande pubblico, conta solo che il brano le piaccia. E le piace se è bello. In campo artistico, l’intellettu­alità si definisce sulla base della consapevol­ezza estetica. Nondimeno, c’è un’altra qualità intellettu­ale in Mina: il saper essere nel tempo (ma sempre aderendo allo spirito, più che alle mode del tempo); e insieme fuori dal tempo, in una sorta di “nobile” isolamento. Questa seconda opzione è più frequente dopo il suo ritiro dalle scene, mentre la prima caratteriz­za fortemente la prima parte della sua carriera. Tuttavia già allora esprimeva un certo dualismo. Credo che ciò sia maturato nel periodo della sua collaboraz­ione creativa con Michelange­lo Antonioni, forse il più intellettu­ale (in senso filosofico) di tutti i registi italiani. Per il film L’eclisse (1962), Mina incide la canzone Eclisse twist. Le registra alla presenza di Antonioni e di Monica Vitti (protagonis­ta del film), che aveva incontrato (entrambi) durante le riprese de La notte (1961). Corteggiat­issima dai registi italiani (Fellini in testa), Mina non se la sente di apparire come attrice in modo slegato dalla sua natura di cantante: paradossal­mente, ma non tanto, preferisce apparire come se stessa in molti “musicarell­i” legati ai divi della canzone, che in ruoli importanti, ma nei quali debba interpreta­re un’altra da sé. Pur dotatissim­a come attrice, Mina vuole mantenersi cantante. La sua ammirazion­e per Antonioni, però, ha indubbiame­nte un tratto filosofico. C’è una comune vocazione-inclinazio­ne all’estraneità. Si è discettato molto sull’incomunica­bilità come chiave per comprender­e il pensiero di Antonioni, ma diciamocel­o: come può propendere per l’incomunica­bilità un regista-autore dimostrato­si sempre in grado di comunicare al grande pubblico una visione alta (esteticame­nte e filosofica­mente) della vita? Come può ritenersi poeta dell’incomunica­bilità un autore capace di mostrare in modo riconoscib­ilissimo, ma profondo e acuto, i cambiament­i delle trasformaz­ioni urbane, del clima sociale, delle relazioni sentimenta­li, dei costumi e delle mentalità? Antonioni ha anche raccontato con grande sensibilit­à e precisione, mondi (la swinging London, la California hippie) che non erano il suo mondo. Antonioni e Mina, ciascuno a modo suo, ci testimonia­no di come si possa essere nel tempo, sentendosi al con-tempo, estranei. La canzone più “alla Antonioni” di Mina, è la sua interpreta­zione di It’s A Lonely Town di Doc Pomus e Mort Shuman, cioè Città vuota (1963) con il testo italiano di Giuseppe Cassia e lo splendido arrangiame­nto di Piero Gosio che rallenta l’originale, consentend­o a Mina di dilatare le pause. Si tratta di una storia d’amore, ma ciò che vi si esprime è il nonsenso di un modo di vivere da folla senza amore negli spaesanti scenari metropolit­ani contempora­nei.

C’è un’altra qualità intellettu­ale in Mina: il saper essere nel tempo e insieme fuori dal tempo

Mina: intellettu­ale della canzone... dalle buone letture. Farabolafo­to

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Mina nel 1962, in sala doppiaggio con Monica Vitti e Michelange­lo Antonioni.

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