LA FOTOGRAFIA MI HA SALVATO LA VITA
Art director, appassionato di moto e di cavalli, disegnatore, perfino musicista: Toni Thorimbert è il più atipico dei fotografi. Un ex ragazzo hippy che ha vissuto in pieno l’atmosfera libera e anarchica degli anni 70 e ancora oggi fugge ogni qual volta s
on ha fatto certo soltanto il fotografo, nella vita. Art director, appassionato di moto e di cavalli, disegnatore. E musicista. Da giovanissimo suonava la batteria con un gruppo che si chiamava The Brian’s, che si esibiva in giro «per quelle lande desolate» come definisce lui i comuni di Milano, tipo Cernusco e dintorni, proponendo cover e pezzi originali in un inglese finto: tanto, chi andava a sentirli mica sapeva l’inglese. Forse con la batteria non sarebbe andato lontano, mentre come fotografo ha collaborato alle riviste più prestigiose, ha ritratto i personaggi più noti, è conosciuto da decenni a livello mondiale, ha fatto mostre ovunque e pubblicato libri - in edizioni costose e limitate - che sono andati regolarmente esauriti. Però dai tempi dei Brian’s Toni Thorimbert non si è mai distaccato abbastanza da non eccitarsi quando si parla di musica e di musicisti. Anzi. È uno degli argomenti che preferisce.
Che stai ascoltando ora? Dimmi la tua playlist.
Tutto quello in cui la batteria ha un ruolo primario, o perlomeno importante. Dai King Crimson in giù. I KC sono i primi che utilizzano la batteria come strumento solista non obbligatoriamente catalogabile come assolo, come fraseggio e non come ritmo. Ascolto poi blues e drum ‘n’ bass, che secondo me è stata l’ultima grande novità sulla scena musicale. Poi c’è parecchia gente brava, anche giovanissimi.
Hai documentato negli anni 70 l’estrema periferia di Milano con i dormitori squallidi e le bande di ragazzini che vivevano per strada. Hai fotografato Moravia e Rupert Everett, Armani e Natalia Ginzburg, Indro Montanelli e John Malkovic. Hai realizzato meravigliosi servizi di moda. Ma qui vorrei parlare dei musicisti. Cominciamo da Franco Battiato?
Allora dobbiamo tornare molto indietro. Mio padre era un grafico con la passione della foto, io avevo una macchina fotografica e potevo lavorare nello studio dove c’era un fotografo. Niente di che, ma avevo intuito, subito, che la fotografia poteva essere un lasciapassare per incontrare le persone che mi interessavano. Battiato era agli inizi, eravamo quattro gatti a seguirlo e faceva musica inascoltabile, parlo di FETUS. Era stato già fotografato dal mio capo, Fabio Simion, che faceva tutte le copertine dell’Area insieme a Gianni Sassi, che era l’art director. Con loro, c’ero anch’io. Avevamo usato Battiato per la pubblicità dei divani: capelli lunghi e crespi, occhialoni psichedelici, pantaloni a stelle e strisce come la bandiera americana, che gli aveva regalato Claudio Rocchi (e che Franco poi regalò a sua volta a Ricky Belloni: ci sono foto di Ricky che indossa quei pantaloni sul palco con La Nuova Idea), viso
«Facendo il fotografo ho trovato la quadratura del cerchio: partecipare alle vicende in un ruolo che mi piace molto»
pitturato di bianco. Una cosa che oggi si di- rebbe “transgenica”. Il testo era: “Che c’è da guardare? Non avete mai visto un divano?”. Sottotesto implicito: “E allora? Qual è il problema?”. Una perfetta sintesi degli anni 70.
Andavi ai concerti di Battiato?
Cercavo, cercavamo di andare. Franco lo conoscevamo perché avevamo un piccolo giro di spaccio di fumo, e lui venne da Milano con la sua 130 metallizzata, un’auto già di lusso per l’epoca, a comprare fumo da noi, vicino Cernusco. Mi ricordo una volta un infinito viaggio tra treni e autostop per andare a un suo concerto a Civitanova Marche. Non avevamo i biglietti, non avevamo i soldi per comprare i biglietti, eravamo pure troppo “fatti”. Venne fuori Franco, carinissimo, a parlare con noi. Ma che poteva fare? Un’altra volta, sempre partendo da Cernusco, dovevamo andare al Palalido col trenino. Sballatissimi, tutti. Non arrivammo mai. Poi sono migliorato.
Merito della fotografia, questo “miglioramento”?
Di sicuro. Direi che la fotografia mi ha salvato la vita. Quando facevo il batterista non ero soddisfatto, avrei dovuto studiare e non mi andava, e credo che non si confacesse al mio ego: sul palco la batteria è troppo arretrata. Avrei voluto essere frontman che non cantava. Ma ero abbastanza d’effetto. La mia scuola sono stati i Led Zeppelin. Ho risentito recentemente
Moby Dick, ho riconosciuto proprio il timbro. Facendo il fotografo ho trovato la quadratura del cerchio: partecipare alle vicende in un ruolo che mi piace molto.
Anni 70. Tempi bellissimi?
Bellissimi e disagiati. Erano i famosi tempi di Claudio Rocchi. Claudio per noi era un… difficile spiegarlo. Per esempio, la “nostra” musica la potevi ascoltare solo a Radio2, dove lui aveva lo «Spazio Rocchi» in Per voi giovani. E insieme alla musica, potevi sentire da lui i “nostri” temi, i “nostri” deliri.
Ora parlerei di Vasco Rossi. L’hai fotografato tantissimo, in una grande varietà di pose, scenari, situazioni.
Ho iniziato a lavorare con lui nell’84, fino al 2000 in maniera continuativa e poi occasionalmente. Un rapporto con alti e bassi e momenti di pausa. Con Efrem Raimondi ho fatto su di lui un libro che si chiama Tabula rasa, perché io e Raimondi siamo stati i fotografi che più a lungo hanno realizzato con lui servizi per giornali, foto per la casa discografica, foto che hanno contribuito a costruire la sua immagine. È stato la vera grande rockstar italiana – lo dico al passato, perché bisogna capire se sia ancora così –. A un certo punto, è successo che questo essere rock di Vasco mi aveva un po’ stufato, culturalmente non mi seduceva più. Sulla scena appariva Lorenzo (Jovanotti), che era come noi, molto più “orizzontale”. Mentre Vasco dovevi celebrarlo, Lorenzo si metteva sul piano del dialogo, e ancora adesso è accessibile.
Che atteggiamenti aveva e ha, questa “vera grande rockstar italiana”?
All’inizio non sapeva bene come gestirsi. Era appena uscito di galera, quando abbiamo fatto COSA SUCCEDE IN CITTÀ (la copertina è mia), ed era… devastatello pure lui. Poi negli anni 90 stava benissimo, aveva un’energia incredibile. Certo quel successo lì, enorme, ti falsa tutto. Era diventato inaccessibile. Non per me, ovvio. Ma come personaggio. Arrivava con la Bentley, aveva un sacco daffare con le groupies. Era proprio la rockstar di una volta, e questa dinamica mi pareva superata dai tempi. Ero già più interessato all’idea del collettivo, del produrre musica insieme. Penso ai Masbedo, sul palco tutti allo stesso livello, alcuni suonano e altri no… Il mondo cambiava e Vasco no. Giusto, per carità. Vasco è Vasco, quello che vediamo è.
Hai citato Jovanotti. So che secondo te era ed è un innovatore.
Mentre Vasco capivi che faceva fatica a sopravvivere, Demetrio Stratos e Lorenzo li percepivi immediatamente come persone che avrebbero lasciato un segno nel modo di fare musica, di intendere un concerto. Non a caso Lorenzo ha fatto recentemente concerti molto innovativi, a Vasco e Ligabue non verrebbe mai in mente una cosa del genere: loro si esprimono con la musica, usano la musica per manifestare quello che hanno dentro, ma non ragionano in termini di crescita della musica.
Vasco Rossi, 1985.
Demetrio Stratos. Parlava anche lui solo di musica, quindi?
Quando venivano gli Area in studio da noi, capivi in un attimo che lui era un innovatore. Era chiarissimo. È una cosa molto forte che appartiene a tutti i grandi musicisti: gliene frega solo della musica, tutto quello che pensano è relativo alla musica. D’altra parte, per gli innovatori non c’è altro modo.
Passiamo a un altro genere e a un’altra generazione. Ornella Vanoni…
Ho fatto un disco con lei nell’81, io ventiquattro anni e lei cinquantenne al top della forma. Avevo portato la macchina a lavare per fare bella figura al Grand Hotel di Rimini, dove mi aspettava. Era la mia prima auto, Lancia Flavia 1800 senza cerchioni, proprio da zingaro. Ma entro nel parcheggio e vedo solo Rolls Royce e Mercedes. Faccio dietrofront. Lei: «Com’è andato il viaggio, sei venuto in macchina?». Io: «No, no, in treno». È stato con Ornella che ho mangiato per la prima volta in ristoranti fighi. La cosa straordinaria è che nessuno pagava, e io ero completamente sbalordito da questo mondo alieno. Tra le varie cose, ho fatto per lei la copertina di Ricetta di donna. Ornella chiama ogni tanto, io la chiamo poco, e sbaglio. La adoro. Non è mai stata sofisticatissima come sembrava, e stata invece sempre diretta e divertente, senza freni inibitori. Io e Giovanni Gastel abbiamo girato un piccolo film a casa sua, a cena, noi tre: La cena dei cretini. Uno spasso.
Anna Oxa. Un tipo per niente facile, a detta di tutti. Come è stata con te?
Realizzammo grazie al suo primo manager, che era anche il suo uomo, il primo servizio “rubato” a Sanremo nei camerini. Dopo che si erano lasciati, lui diventò il manager di una pornostar, Venere Bianca. Forse voleva far diventare anche la Oxa una pornostar. Anna era decisamente un enigma. Sempre, pure da ragazzina. Sono andato a sentirla poco tempo fa all’Armani Caffè di Milano e mi sono riconfermato nella mia idea che sia un grande personaggio, ma che sia sottova- lutata per colpa, in buona parte, della sua incapacità mediatica.
Mi pare che di personaggi inaccessibili ce ne siano molti. Non solo nel mondo della musica, no?
Le star sono capricciose, e chi ama le star ama anche il capriccio. Attenta: non il capriccetto, il capriccio. Naomi Campbell l’aspetti per ore e non arriva mai, eppure tutti l’adorano. Madonna, che non ho mai fotografato, ha fatto firmare a centinaia di comparse di un suo video un contratto in cui si
Paola Turci, 2020.
impegnavano a non guardare mai nella sua direzione. Che poi ha pure un senso, perché quando hai raggiunto una tale fama, se tutti ti guardano, se tutti vogliono toccarti, impazzisci. Devi difenderti.
Però il ritardo è una cosa bruttissima, una mancanza di rispetto verso gli altri. Altro che capriccio.
È una questione di potere. I rapporti di potere sul set si misurano anche col tempo.
Hai detto che la fotografia per te è da sempre un mezzo. Una chiave. Un privilegio. Ti permette di esserci e di incontrare chi vuoi. Tra i musicisti meno famosi, chi ti è molto piaciuto incontrare, chi ti ha colpito?
Per esempio Riccardo Onori, storico chitarrista di Jovanotti, collaboratore di tanti e anche solista. Mi piaceva un casino come si vestiva ai concerti, suona molto bene, e poi con quelle gonne… Stimo e sono molto amico di Saturnino, di cui si dice sempre bassista ma che è un polistrumentista, produttore discografico e compositore. Riccardo l’ho chiamato e invitato a fare foto. È così che nascono occasioni di scambio. Utilizzo la foto per poter parlare per esempio della consonanza che c’è nel produrre un’immagine e produrre un suono…
Dimmi un paio di altre persone con cui hai fatto il primo passo tu.
Guido Harari. Aveva appena pubblicato un libro su Baglioni, quindi gli ho telefonato e gli ho detto: «Guido, io ho fatto una fatica boia a fare quattro foto con Baglioni, tu come sei riuscito a farci un libro?».
Perché questa fatica boia con Baglioni?
Perché ha un grande ego. Quando andavamo in giro per le foto dell’album e ci dicevano che ci somigliavamo, lui, che si vedeva molto più bello di me, ci restava malissimo. Invece, per darti un’idea di quanto ci somigliassimo, per la strada mi chiedevano di firmare magliette e palloni credendo che fossi lui. Erano tempi d’oro, mi pagavano l’aereo per venire a Roma due o tre volte solo per parlare con Claudio del disco, magari in un bar. Sono anche andato anche a Londra per qualche giorno… e non abbiamo combinato nulla perché lui non si sentiva. C’è una cosa eccezionale che riguarda il modo in cui Claudio scrive i suoi testi: nel retrobottega dell’ufficio del suo commercialista. Pazzesco.
Un altro o un’altra a cui hai telefonato perché volevi conoscerlo/a?
Claudio Rocchi. Ci pensavo da quando ero ragazzo. Una ventina d’anni fa lui girò il suo film Pedra Mendalza e lì nella troupe c’era qualcuno che conoscevo, quindi gli ho chiesto il contatto. L’ho fotografato, sulla copertina del suo libro Le sorprese non amano annunciarsi sono un gruppo rock di fanciulle suonano nude e sono bellissime c’è una foto di quel servizio. Era stata una figura mitica per noi freakkettoni ed è nata un’amicizia al di là delle foto.
Quindi, in qualche modo sei stato un hippy?
Sono stato totalmente un hippy, cavolo, non “in qualche modo”!
Anna Oxa, 1986.