MENTE E COSMO IN MOGOL
Quest’estate Mogol, che nella sua vita ha collezionato una quantità di premi, ne vince uno molto speciale, L’olio della poesia, assegnato in passato ai massimi scrittori e poeti italiani e internazionali, come Sanguineti, Luzi, Raboni, Pontiggia, Alda Merini e molti altri. Il “quaderno” che viene pubblicato in occasione della premiazione contiene un saggio inedito di Gianfranco Salvatore sui temi lirici mogoliani, che ci è stato concesso in esclusiva.
i comincia dall’immensità. Dall’immensità che sta al di là della terra e del mare e del cielo, e dove al di là di ogni cosa c’è “lei” (Al di là, per Luciano Tajoli e Betty Curtis, Sanremo 1961). L’immensità viene di nuovo accarezzata quando Mogol sfiora – ma sfiora soltanto, così dicono - l’omonimo testo di Don Backy (1967), dove all’immenso si contrappone, inerme, il «piccolo pensiero» che è ciascuno di noi. Qualcosa però non andava, in quell’immagine.
E così, dieci anni dopo Al di là, l’immagine fu perfezionata. In La mente torna (per Mina, 1971) dove, di fronte all’immenso, «persino io / non ho più senso», la parola più importante è «persino». Sta a sottolineare la cifra personale, soggettiva, individualista, che s’era persa, per Don Backy, in un angusto «piccolo pensiero». La lirica mogoliana è spesso fatta di piccoli pensieri, ma mai di pensieri piccoli. L’unicità di ogni Io narrante, di ogni minuscolo individuo, di ogni storia, è cosa immensa. Proiezione cosmica affidata alla mente1.
Spesso invasa da amore.
Il cosmo appare così come una scatola di montaggio, fatta di pezzi dell’immagine di lei. È un effetto dell’innamoramento. Avere «per cielo gli occhi tuoi» (Sognando e risognando), immaginare il cielo come l’azzurro degli occhi di lei, anche quando tale più «non è» (Fiori rosa fiori di pesco). Incantarsi a guardare il suo viso che «come un sole rosso è acceso» (La luce dell’est)2.
Però è un inganno. «Ti diranno che il vento è il respiro di una donna», ma solo per velare ogni tormento, mentre tu in realtà vuoi parlare «di orizzonti più vasti», tu sogni di incontrare le creature del cielo, che assomigliano a noi, e a cui vorremmo unirci (Gli uomini celesti).
Lo stesso accadeva alla mente, fin da quando Mogol traduceva a modo suo You Were On My Mind per l’Equipe 84 (Io ho in mente te), nel 1966. Quel che dovrebbe essere la “mia” mente risulta totalmente occupata dall’immagine di lei, e non mi concede altro pensiero, fin da quando apro gli occhi, e mi chiedo che cos’ho, agli estremi del mio corpo, dalla mente alle scarpe, che possano aiutarmi, aiutarmi a non pensare più a lei.
È una mente maschile3. È assieme memoria e fantasia, rimpianto e desiderio.
È una mente che sa volare, proiettata verso i ricordi più intensi: quell’abbraccio violento e umido di pianto, quel seno esposto per beffa al «moralista dell’ultimo piano» (Questo inferno rosa).
Quando è solo memoria, però, questa mente ci inganna. La mente mente, oscillando tra l’idealizzazione e il tormento, quando il ricordo fa più bella e più dolce l’innamorata di un tempo; ma non può cancellare il tradimento di quell’«angelo caduto in volo» (Mi ritorni in mente).
E la mente è misteriosa nella sua proiezione di passato e presente. Produce zone grigie. Non le produce solo nel ricordo. Le infiltra anche nella consapevolezza. «Forse la psicologia / può spiegare questi strani vuoti della mente mia?» (Abbracciala, abbracciali, abbracciati)4. Viene invasa e confusa dall’amore: «a te che sei il mio presente / a te la mia mente / e come uccelli leggeri / fuggon tutti i miei pensieri» (La luce dell’est). Così l’amore riempie la mente e il cosmo. Ma fino a quando?
Il problema è sempre lo stesso, perché una mente è una soggettività, e diventa difficile condividerla. Quello che è «dentro me» si cerca di afferrarlo, stringendo le mani, o chiudendo gli occhi, però «nella mente tua non c’è» (Emozioni). Perché una coppia abita in due menti, in due mondi diversi. «È una vela la mia mente», e produce amore inoltrando la prua, favorita dalla corrente magica del vento: questo sì. Ma i due mondi non sempre s’incontrano, e a vol
«La lirica mogoliana è spesso fatta di piccoli pensieri, ma mai di pensieri piccoli»
te uno vuole fagocitare l’altro. Allora biso- gna ripartire dal cosmo. L’universo respira, sospingendo la mia sfera, e la luce mi sfiora (Due mondi). Bisogna far sposare mente e cosmo, farne una sola cosa. Stanno «in fondo all’anima / cieli immensi / e immenso amore», corrono su «fiumi azzurri e colline e praterie» le mie malinconie dolcissime», e tutto intero «l’universo trova spazio dentro me». È un itinerario di scoperta interiore, di ricerca dell’immenso nel piccolo. Ci si potrebbe anche riuscire. A volte manca solo «il coraggio di vivere», e potremmo essere felici (I giardini di marzo). Perciò un coro insiste rivolgendosi all’anima: «alzati», apriti in un abbraccio universale. «Allontaniamoci», dirò alla mia amica, «verso / il centro dell’universo» (Abbracciala, abbracciali, abbracciati).
Ed ecco che finalmente si vola. Il volo, per Mogol, è una somma di esperienze diverse. È il significato pulsionale svelato dall’analisi freudiana: «credevo di volare e non volo» (Fiori rosa, fiori di pesco). Ma può essere anche, all’opposto, catartica sublimazione degli istinti, afflato tutto spirituale, per «ritrovarsi a volare» seguendo con gli occhi un airone che plana sul fiume (Emozioni)5.
La scelta è difficile. E complicata dalla paura di volare. Come quando, di fronte alla prospettiva di un nuovo amore, sembra prevalere l’esitazione: «senza ali / tu lo sai / non si vola». Eppure, di fr onte a quella speranza che, maledetta, non muore mai, si cede: nessuno scoglio può «arginare il mare» - e «anche se non voglio / torno già a volare». Da qui l’improvviso spalancarsi degli orizzonti, e il verde, l’azzurro, le più ardite discese e risalite, «con un grande salto», dal deserto al cielo (Io vorrei non vorrei ma se vuoi). Quando io t’incontrai, «l’esistenza un volo diventò per me» (Vento nel vento).
Ma nessun volo è infinito.
Nelle pause, quando «nell’aria più non c’è / quel mistero affascinante / che eccitava la mia mente», si vagheggiano altre esistenze, altri voli, altre libertà: «senza te, / leggero, senza vincoli, / sospeso in mezzo all’aria / come un elicottero» (Orgoglio e dignità). Si inventano ali diverse, per sfuggire al mondo. «Io disperato con un mantello alato sopra un monte corro» (La macchina del tempo). Correre però non basta. Serve una spinta verticale. Il sentimento deve volare innanzandosi «altissimo» sul pianto, dev’essere «sorretto da un anelito d’amore», indifferente alle accuse e ai retaggi, alla morale delle gente comune, che imprigiona il mondo, finché non cade «la veste dei fantasmi del passato», e «s’alza un vento tiepido d’amore» (Il mio canto libero).
Finalmente si scopre perché volare è difficile. Perché è una battaglia, contro chi ritiene di detenere la verità dei sentimenti, e di quella morale collosa che vi hanno appiccicato6. Perfino le ali del «nostro caro angelo» incontrano reticolati che gli precludono il volo, fino a che le più potenti aspirazioni, come «traccianti luminose», trovano il modo di filtrare il buio della magniloquenza dottrinale, e «gli additano il blu» (Il nostro caro angelo). Perfino lui, il nostro angelo custode, ci appare in fuga dall’oscurantismo cattolico, all’oppressione del peccato e del senso di colpa. Mogol riprenderà il discorso in La collina dei ciliegi, che rappresenta anche l’acme della sua dialettica “micro/macrocosmica” tra la mente e lo spazio infinito, virtuali metafore di libertà7. Un’alba conta più della saggezza, specie se intravista correndo tra i ciliegi, sulla collina. Il senso dello spazio – e dello spaziare, volando – conta più dei freni della tradizione. La brezza porta il respiro di terre e distanze sterminate, dell’immensità, al tempo stesso «più in alto e più in là», ma a una condizione: solo «se segui la mia mente». Se accetti di immedesimarti nel mio personalissimo, soggettivissimo, cosmico afflato. Le vertiginose campiture e oscillazioni metriche dei versi di La collina dei ciliegi fanno da contrappunto concreto e terragno all’utopia, ne disegnano il passo assurdo, e però desiderabile, e dunque praticabile.
E le immagini sono memorabili. Si vola attorno all’esiguità sfuggente di un pallone, come un colombo, a patto di abbatterlo e distruggerlo «con un colpo di becco»: perché quel pallone, gonfio di nulla, è la saggezza stagnante della tradizione, è il peso del passato e delle età, l’opprimente e inconsistente eppure gravido peso delle età e delle esperienze che costruiscono l’inganno delle dottrine e dei precetti. E solo forandolo e inabissandolo si può risalire «più in alto e più il là / (se chiudi gli occhi un istante) / ora figli dell’immensità»8.
«Il volo, per Mogol, è una somma di esperienze diverse»
La collina dei ciliegi è la summa del pensiero di Mogol su quella ricerca che è la vita, una ricerca che la vita fa di se stessa, provando a staccarsi dal grigiore delle vite convenzionali, delle vite regolate ed eterodirette: provando a «vivere una vita luminosa e più fragrante», giocandosi tutto. E adesso è chiaro che quell’invito era a perdersi insieme: «se segui la mia mente… / se segui la mia mente…». Che cos’altro è l’amore? Provaci, prova a credere a quello che penso e canto e dico, per non diventare «preda dei venti» - meglio «correre sulla collina», vedere l’alba tra i ciliegi, prendere a calci i sassi, superare la paura di stare insieme, di darsi la mano. Magari solo per un giorno. Perché «le anime non hanno sesso». Perché «le anime non sono mie».
Perciò, se non riesci ancora a volare, sali anche tu sulla collina. Sulla collina fioriscono i ciliegi. E i fiori rosa del pesco. E le vigne in cui si fa l’amore, e i boschi fatti di braccia tese. Qui si canta la canzone del sole. Sognando e risognando. Tra gli uomini celesti, come vento nel vento.
Gianfranco Salvatore
(autore di Mogol/Battisti: l’alchimia del verso cantato e di L’arcobaleno: storia vera di Lucio Battisti vissuta da Mogol e dagli altri che c’erano)