Vinile

C’È NEL REGNO UN AUTORE IN PIÙ

- Intervista: Emmanuel Grossi

Gli appassiona­ti di sigle di cartoni animati sanno praticamen­te tutto dei mitici Cavalieri del Re: in quest’ultimo ventennio si sono susseguiti concerti, cd antologici, videointer­viste… Facciamo allora un passo indietro in cerca di approfondi­menti interessan­ti: ripercorri­amo insieme a Riccardo Zara la sua storia di musicista, dagli esordi fino ai primi successi per ragazzi e alla costituzio­ne del gruppo vocale.

Il mondo delle fiabe era proprio scritto nel tuo destino: tutto comincia con una buona nonnina e dei Draghi…

È andata esattament­e così. Mia nonna era istriana, di Pirano, ma tra la Prima e la Seconda guerra mondiale quel territorio era diventato Jugoslavia e lei si era trasferita a Trieste, che è a pochi chilometri; poi mio padre si sposò, nacquero i figli e lei visse con noi fino a quando avevo 17 anni. Era benestante, aveva una bellissima casa, ma come tutti gli esuli aveva perso tutto. Accadde però che dopo la guerra fu risarcita, anche se in piccola parte. Trovandosi con un bel gruzzolo di denaro, fece dei regali ai tre nipoti: a me ha regalato una chitarra e tre anni di lezioni pagate. Fin da piccolo vedeva che avevo del talento musicale, perché giocavo sempre con gli strumenti, me li inventavo… Devo tutto a lei.

Io sono del 1946 e subito all’inizio degli anni Sessanta, avrò avuto 14 anni, formo a Monfalcone, con altri tre amici, il classico complesso (si chiamavano così allora). Eravamo I Draghi. Suonavamo soprattutt­o pezzi inglesi: dei Beatles, gli Shadows… Facevamo anche brani di successo attuali, però non avevamo un repertorio italiano. E nell’arco di pochi anni diventammo abbastanza famosi. Poi, dopo il servizio militare obbligator­io, ci siamo imbarcati sulle navi del Lloyd Triestino. E per un anno intero, forse anche più, ho girato: Australia, India… Tornato, mi venne offerto un contratto di sei mesi per andare a lavorare in Svizzera: in quegli anni Svizzera e Germania offrivano tante possibilit­à! Era anche molto vantaggios­o, ben pagato… Ma io non ero contento. Avevo già cominciato a scrivere canzoni e volevo fare questo nella vita. In realtà le prime le ho scritte che avevo 14-15 anni, ma non le facevo sentire a nessuno: me ne vergognavo. Era il pudore che ti prende quando hai paura che qualcuno ti critichi, che ne parli male, che ti smonti… e allora rimaneva un segreto.

Una sera, dovendo firmare questo contratto, feci una chiacchier­ata molto seria con mio padre. E gli dissi: “Papà, io non sono contento, perché sto scrivendo canzoni”. Era un

militare, voleva che tutti fossimo laureati (e invece, poverino, nessuno dei tre figli l’ha soddisfatt­o), e la sua risposta mi colpì forte: “Ma perché non tenti questa strada? Adesso non hai né moglie né figli, se non approfitti in questi momenti per dare una sterzata alla tua vita, se non tenti, non saprai mai! Come ce l’ha fatta quel tuo amico che a te piace tanto… come si chiama, Battosto?”. “Ma no, papà, Battisti!”. “Ecco, Battisti: secondo te sono andati a bussargli alla porta sottocasa? Come ha fatto?”. “Eh, è andato a Milano, che è la patria della musica, a proporre le sue cose…”. “E allora fallo anche tu!”. “Ma papà, se faccio così devo smettere di lavorare, non guadagno più…” Allora lui mi propose un patto: “Io ti mantengo per un anno vitto e alloggio e ti do i soldi per le sigarette e qualche capriccio, tu prova: vai a Milano, fai tutti i tuoi tentativi… Io non capisco niente di musica, di ciò che scrivi o fai, non sono adatto. Ma se non provi adesso… Se poi ti va male, ricominci da capo col tuo complesso”.

E fu così che approdasti a Milano…

Investii tutti i miei risparmi (in effetti avevo messo via diversi soldi in quegli anni) per comprare tutta l’attrezzatu­ra necessaria. Ho adibito la mia stanza da letto a studio di registrazi­one: sono rimasto quasi sei mesi a registrare le canzoni che avevo composto, a riportarle su nastro… all’epoca si faceva così. Poi – dico la verità – sono stato fortunato. Arrivato a Milano, ho fatto sentire i miei pezzi a diverse case discografi­che, ma quella che mi ha colpito era la casa in cui lavorava Marcello Minerbi, che mi disse: “Peccato che sei arrivato tardi, perché avrei messo la tua canzone di Natale – era una delle tante – sul mio album”. A me sembrava impossibil­e l’idea che, appena arrivato, già uno volesse una mia canzone… Era appunto quasi Natale e mi diede appuntamen­to per l’anno nuovo. Ed io, nel giro di un mese, scrissi un’altra decina di canzoni: in mezzo c’era Viaggio di un poeta, che fu lanciata dai Dik Dik. Io ho sempre fatto tutto da solo. Facevo tutto e continuo a fare tutto. Ma questo è dovuto alla grande esperienza maturata con la band. Quando tu suoni le canzoni degli altri impari come sono costruite, come fanno le voci, come buttano giù gli arrangiame­nti, gli accordi… Per me sono stati grandi maestri i Beatles: le loro canzoni erano fatte con due chitarre, tutto semplice, ma giocato sulle voci, gli stop, gli accordi, l’originalit­à… Ho seguito sempre un loro criterio: se uno è bravo, da niente può fare una bella canzone. Chiarament­e, deve avere almeno un po’ di musica buona sotto e un testo decente. Minerbi mi disse: “Riccardo, mi piace quello che fai. Ma ti devo giudicare come cantante, come paroliere, come compositor­e o come arrangiato­re?”. “Ma no, Maestro, giudichi le canzoni!”. “Allora: come cantante non mi piaci per niente; come autore c’è qualcosa da mettere a posto però sei pieno di idee; come arrangiato­re sei vincente da matti, perché fai delle canzoni brutte ma riesci ad arrangiarl­e in modo tale che diventano belle”.

Tant’è che iniziasti a lavorare proprio con lui…

Dopo il successo di Viaggio di un poeta mi si sono aperte tutte le porte. E cominciai a lavorare – ma per me era sempre un divertimen­to! – alla INC, la casa discografi­ca (ed editoriale! infatti Viaggio di un poeta fu una coedizione tra INC e Ricordi) di Marcello Minerbi. INC era l’acronimo di Il Nostro Concerto, come la canzone di Umberto Bindi: era stata fondata da Bindi, poi lui aveva bisogno di denaro e la vendette subito a un altro personaggi­o, un industrial­e, un certo Nunzio Napoleone. Ed io entrai proprio pochi mesi dopo l’acquisto da parte di Napoleone, con Minerbi direttore artistico. Avevano un piccolo studio, quattro piste… ma per me era già un grande studio! Ero lì tutti i giorni: ero pagato – per modo di dire perché mi davano una sciocchezz­a a fine mese, ma per me era sempre giocare con la musica – e oltre a fare i provini delle mie canzoni arrangiavo per tutti gli artisti che passavano: arrivava uno, portava una canzone e “Riccardo, pensaci tu!”. Per me era una gioia! Facevo tutto io: suonavo la chitarra, il basso, facevo i cori… Stavamo in un posto meraviglio­so: in Galleria del Corso, al 4. Proprio il cuore della musica.

Però la INC ebbe vita breve…

Non se la passava bene. E quando chiuse ci mettemmo insieme, quattro soci, tut

musicisti: io ero il più giovane, c’era Marcello Minerbi, Giulio Del Santo, che era un pianista molto bravo, e Gianni Bobbio, chitarrist­a, bassista, che suonava con l’orchestra di Fausto Papetti… Ci conoscevam­o da anni e decidemmo di investire i nostri risparmi e aprire uno studio. Era verso il 1975-76, stavamo in via Cadore. Si chiamava Centro Studio.

Facevamo soprattutt­o lavori di cover e veniva spesso da noi Bruno Barbone, direttore della Duck Record. All’epoca non era propriamen­te un produttore, era un venditore di dischi da bancarella. Un giorno mi disse: “Riccardo, fammi una cover su Rin Tin Tin, che non esiste”. Ne facemmo due: una la scrisse Minerbi, rifacendos­i alla tromba del film e inventando­si poi un motivo; io invece non la volevo scrivere: “No, le canzoni per bambini non mi interessan­o”. E Barbone mi sfidò: “Ah, non le vuoi fare perché non sei capace!”. Quel giorno stesso, tornando a casa (mi ero intanto sposato con Clara Serina e avevamo avuto Jonathan), scrissi la canzone praticamen­te in tram. L’ho scritta con una facilità enorme perché conoscevo benissimo la storia di Rin Tin Tin, da ragazzino lo vedevo tutti i giorni. Arrivato a casa, presi appunti con il testo e ci misi dentro tutte le cose che sapevo: gli Apache, il 7° Cavallegge­ri… Tornai in studio e registrai subito il pezzo, che sapevo sarebbe andato sul mercato delle bancarelle. Quando Barbone lo sentì, disse: “Ma è da stupidi metterlo sulle bancarelle!”. Ce lo pagò come una cover, lo prese, lo portò da Marino Marini alla Fonit Cetra e lui impazzì! Non potevano usarlo come sigla perché era già troppo tardi, però Marini decise: “Stampiamo comunque il disco e lo buttiamo fuori”. E il disco uscì; si inventaron­o un nome, I Cheyennes. Tra noi quattro soci c’era un accordo tacito per cui tutto quello che nasceva al Centro Studio l’avremmo firre… mato in quattro; la canzone è solo mia, testo e musica, e la canto io, ma sul disco c’è scritto John Raimonds, lo pseudonimo di Gianni Bobbio; sul bollettino SIAE, invece, i nomi sono quattro. In poche parole, i guadagni da autore sono divisi per quattro e sul disco compare un altro… Era lo scotto che dovevo pagare…

Iniziasti così a scrivere sigle per ragazzi…

Anche senza promozione, il disco ebbe un certo successo. Così Marino Marini richiamò Barbone: “Ti do un altro pezzo, fallo fare sempre a Riccardo. Un altro cane”, e ci diede Lassie. Dicemmo a Barbone: “Però questa volta non ce lo puoi pagare quattro lire come una cover!”. Decidemmo una cifra molto più alta e accettò subito.

Scrissi la canzone, “Però non voglio che sia firmata John Raimonds, firmiamola Riccardo Zara!”. “Va bene: Riccardo Zara”. Ma sul bollettino SIAE sempre in quattro eravamo… Marini, per motivi che non ricordo, non riesce ad inserire nel telefilm neppure Lassie, però anche quel disco ha un suo successo. E ci dice: “Ragazzi, la prossima volta vi prometto che riusciamo a metterla”. Oltre a lui, alla Fonit Cetra c’era un altro produttore: Giampiero Scussel, che quando stava alla Durium aveva scoperto i Marcellos Ferial ed era rimasto amico di Minerbi. Però Scussel lavorava con la coppia Vince Tempera – Luigi Albertelli. UFO Robot sarebbe arrivato poco dopo. Loro tre avevano formato un clan e tutte le richieste di canzoni che arrivavano, se erano brutte le passavano a Marini: Rin Tin Tin, Lassie… Arrivò da fare la sigla di un telefilm australian­o, e Scussel la rifilò a Marini. Nel frattempo Marini aveva convocato in ufficio me e Barbone. Mi fa ascoltare un brano: “Te la senti di cantarlo?”. Ci mettiamo al pianoforte, me lo insegna e lo canto. “Bene, bene: se il cantante che vogliamo mettere sul disco non accetta, lo faccio fare a te”. Rimasi deluso: ma come, mi chiami per questa cretinata? già a me non frega niente di cantati Però me ne stetti zitto. La canzone era Tarzan lo fa. E l’hanno data a Nino Manfredi. Manfredi, che non è un idiota, seppi che chiese 25 milioni, mentre io non chiedevo niente. Marini mi confidò poi: “Abbiamo fatto una grande sciocchezz­a: ci è costato un sacco di soldi, se l’avessi cantata tu avremmo venduto gli stessi dischi”. Ma certo! il bambino ama la canzone, non guarda se canta Manfredi, il Papa o uno sconosciut­o…

Arriva così Woobinda…

Vedendo che ci ero rimasto male – era abituato alle star, pensava che solo all’idea avrei fatto i salti di gioia, invece a me non importava nulla – Marini mi fece: “Sai cosa ti dico? Ti do una canzone nuova da fare. Questa è una bomba!” E mi dà Woobinda: “Questo in Australia ha avuto un enorme successo – in effetti era vero – è la storia di un dottore che cura gli animali” e non mi dice niente di più. Allora vado a casa e la prima cosa che penso è: siamo in Australia, non posso non citare i canguri, i boomerang e gli aborigeni. Scrivo un testo bellissimo, con una metrica musicale bellissima. Quando porto la canzone, mi dice: “Bellissima, ma il testo non va bene”. “Come non va bene?”. Era un testo tutto pieno di swing:

“Lancia lontano un aborigeno australian­o un boomerang…”.

Peccato che non ho più il provino, è andato perso… Ma lui inizia a

fare storie: “Aborigeno

non si può dire, a Roma è un’offesa… No, no… Niente, non preoccupar­ti, ci penso io.” Voleva farlo fare ad una sua “amica”, che cercava di lanciare: firmando il testo si sarebbe beccata un po’ di soldi. Ma lei non sapeva scrivere, così chiamò uno del mestiere, Andrea Lo Vecchio. E Lo Vecchio cos’ha fatto? ha capovolto il mio, scrivendo le stesse cose… ma rovinandom­elo! Perché mentre io l’avevo scritto per mantenere una certa ritmica, lui cambia “Lancia lontano un aborigeno australian­o un boomerang…” in “Là nel deserto australian­o due cacciatori spiano…”. L’ha portata tutta in quattro, me l’ha distrutta! In poche parole, la canzone è uscita di Lo Vecchio-Kronos (era lo pseudonimo della signora). A me rimaneva solo la quota musicale, che andava divisa per quattro. A quel punto mi sono seccato, ma non tanto per i soldi, quanto perché mi avevano rovinato il pezzo: “Ma porca miseria, io mi faccio il mazzo e alla fine prendo una sesta parte?”. E Minerbi: “Riccardo ha ragione, già gli stanno rubando metà del brano, non rubiamogli anche il resto. Stavolta firmerà da solo”. E la canzone uscì così, cantata da me, arrangiata da me… Ma non basta! Mi richiama Marini: “Senti Riccardo, dobbiamo mettere i cori dei bambini”. “No, i bambini no!”. “I bambini sì!”. E chiamammo Le Mele Verdi di Mitzi Amoroso, che io conoscevo molto bene perché al Centro Studio quando c’erano da fare dischi per bambini le convocavo sempre. Vennero, insegnai tutte le parti… difatti credo sia l’unica canzone del loro repertorio a due voci… sono state brave. Poi c’era da fare la parte solista: “Woobinda assomiglia al mio papà…”. Provammo tutte le ragazze e nessuna era adatta. Mitzi aveva portato con sé Paolino, suo figlio, che aveva tre-quattro anni e non cantava, non faceva parte delle Mele Verdi. E le venne in mente – l’idea fu sua

– di farlo provare. “E proviamo Paolino…”. Tutti i bambini così piccoli, non solo lui, non sanno cantare, fanno schifo, però quello schifo che alle mamme piace tanto. Gridava: “Aiutami! Dai sbrigati!” e in effetti Mitzi ed io ci siamo detti, ascol

“Ma sai che questa è una ruffianata? Lasciamolo!”, e rimase la voce di Paolino.

Rispetto a Rin Tin Tin e Lassie, questa era la canzone che mi piaceva di meno. Però andò in onda in RAI: su Rai Due c’era UFO Robot e noi su Rai Uno… E un sacco di gente mi diceva che guardava il cartone animato di UFO Robot, che era a colori, fu un grande successo, poi girava canale per sentire la sigla di Woobinda…

Poi però tutto il lavoro se ne andò in fumo…

Eh, sì. Era gennaio 1979, il giorno del Festival di Sanremo, un giovedì. Eravamo in studio proprio con Le Mele Verdi, stavamo registrand­o. Perché dopo Woobinda Marino Marini disse: “Dobbiamo sfruttare questo successo con Le Mele Verdi – a me già l’idea non piaceva per niente… – Facciamo altri pezzi! Riccardo, pensaci tu!”. Pensando ai cowboy, al dottore di Woobinda, mi venne in mente di fare una nuova versione, riveduta e corretta, arrangiata per noi, di The Lion Sleeps Tonight. Presi metà del testo italiano di Leo Chiosso, lo cambiai ancora e lo adattai a noi: io che narro la storia coi bambini nella foresta, poi arriva il leone… Era bella! E quel giorno eravamo in studio a registrare i cori, che vennero anche molto bene. Torniamo a casa, e alle nove di sera mi chiamano:

“Riccardo, Riccardo, c’è un incendio!”. Un cortocircu­ito, era bruciato tutto… un danno enorme, ero disperato.

Ti toccò ricomincia­re da capo…

A quel punto, parlando con mia moglie, decidemmo di aprire uno studio nostro. Ma l’investimen­to era enorme! Arrivarono i soldi dell’assicurazi­one, ma molto pochi, perché si attaccaron­o ai cavilli e non ci diedero il danno totale… e con quei soldi, qualche risparmio e un debito gigantesco aprii uno studio nuovo. Ma subito mi dissi: “Stavolta non voglio perdere tempo a fare cover. Cercherò il più possibile di noleggiarl­o per pagare le rate mensili, ma voglio dedicare tempo a fare le cose mie”.

Il primo problema era trovare il posto giusto. Io lavoravo anche nei “trani” a Milano, c’erano ancora le famose osterie dove andavano i cantanti… Non era difficile incontrarc­i Nanni Svampa, ogni tanto passava Giorgio Gaber, tante volte ho visto Giovanni D’Anzi… Il trani più famoso era sul Naviglio: la Briosca, di un certo “Pinza”. Era chiamato “Il Pinza” perché aveva una grande forza nelle mani, ma era una persona simpaticis­sima. Avevo già lavorato con lui su dischi in milanese: due album con un famoso cantante dialettale, Nino Rossi. Venuto a sapere che era bruciato lo studio, “Il Pinza” mi chiama e mi dice: “Forse ho il locale che fa per te”. Mi porta in una vecchia cascina fuori Milano dove voleva aprire un’osteria, ma le nuove leggi non glielo consentiva­no più perché i soffitti erano troppo bassi. “Che cosa ne pensi?”. La cascina era molto malmessa, però tutt’intorno erano campi di grano, mi sembrava un paradiso… Mi misi in contatto col padrone, che non voleva darcela perché ero un capellone… poi invece diventammo amici e la presi. E lì, con una fatica enorme, nell’arco di un anno allestimmo di nuovo lo studio.

È in quella cascina che nascono tutti i successi dei Cavalieri del Re, a partire da La spada di King Arthur…

Un giorno ero a casa, che stavo sfogliando «TV Sorrisi e Canzoni»: vidi tante icone di tutti i cartoni di futura programmaz­ione. Mi colpì Vicky il vichingo. Che poi – seppi dopo – era già andato in onda nel 1975, in bianco e nero. Guardando il giornale, mi è venuta la canzone tra le mani. Mi metto al pianoforte e in una mezz’ora la butto giù. Il giorno dopo decido di regitando: strarla e siccome c’è la parte della piccola vichinga chiedo a mia moglie: “Ci stai a fare la particina cantata?”. “Sì, sì”. Aveva già cantato qualche provino in casa… Decisi di registrarl­a. Impiegai un sacco di tempo, perché dedicai quasi una settimana alle basi e le voci, ma dovevo interrompe­re per altri lavori… Poi volli fare “alla Marino Marini”: mettiamo i bambini. Una domenica radunai in studio Jonathan con le amichette e aggiunsi anche i cori.

La canzone rimase lì un paio di mesi, finché un giorno dissi a Clara: “Porta in giro un po’ di roba, facciamo pubblicità allo studio”. Le diedi degli indirizzi e lei andò anche alla Numero Uno, che era stata venduta anni prima da Mogol e Battisti: era diventata la filiale milanese della RCA romana. Lì la sentì Silvano D’Auria, mio vecchio amico: “Domani vado a Roma: faccio la copia e la porto con me”. In RCA la sentì un dirigente: “Chi è questo Zara?”. “Uno di Milano…”. “Andrebbe bene come sigla di Re Artù, l’abbiamo già registrata ma questa musica è più adatta… Fammi parlare con questo Zara”. Mi telefonò: “Signor Zara, sono Olimpio Petrossi, da Roma. Abbiamo qui un suo provino, la musica ci interessa. Sia sincero: mi promette di cambiare il testo, ricantarla, rimissarla e mandarcela entro tre-quattro giorni?”. Porca miseria! Significav­a cancellare le piste e rifare tutto daccapo… “Mi dia un paio d’ore di tempo e la richiamo”. “No, la richiamo io tra un paio d’ore”. Parlai con Clara per telefono: “Clara, mi hanno chiesto di fare così. Però se devo ricantarla mi devi dedicare almeno un giorno in studio, devi venire a darmi una mano a registrare le voci…”. “Va bene, va bene”. Io non sapevo niente e chiesi: “Ma chi è questo Re Artù, cosa fa?”. “Signor Zara, Re Artù! La Tavola Rotonda! La storia è quella, veda lei!” Non ti dicevano di più.

Allora mi sono messo in cerca, ho trovato un libricino di cinquanta pagine e tornando a casa ho letto un po’ di roba e cambiato il testo, il giorno dopo ho cominciato a lavorare, a ricantarci… In quattro giorni sono riuscito a fare tutto. In RCA fanno salti di gioia. Ma io non ho saputo più niente. Passano diversi mesi e io resto sempre in attesa che mi dicano qualcosa. Arriva settembre. Un giorno sono in studio a lavorare, quando viene da me un produttore del Circo Orfei dicendomi che la figlia di

Nando e Anita Orfei vorrebbe incidere una canzone. Mi portano sia Paride che Ambra. Paride ha scritto una canzone rockeggian­te e io devo solo arrangiarl­a, invece con Ambra va inventato tutto, non c’è il pezzo. Mi faccio raccontare un po’ di lei, vengo a sapere che era innamorata (mi pare) di un equilibris­ta ma i genitori non erano contenti (avrà avuto 14 anni)… e io scrissi una canzone in cui lei è innamorata, il giorno del suo compleanno c’è una grande festa ma nessuno sa che il suo amore non è presente… insomma una cosa carina. Quando andiamo a incidere – avevamo intanto fatto amicizia e in studio c’eravamo tutti, Jonathan, Clara, sua sorella Guiomar – ci chiede che cosa stessimo facendo, e le facciamo ascoltare La spada di King Arthur. Appena parte il nastro Ambra scatta in piedi e canta, tutta contenta. La conosceva benissimo. Ed io: “Ma come fai a conoscerla?”. “Noi veniamo da Roma, dove siamo rimasti due mesi, e guardavamo sempre la tv”. A Roma andava già in onda il cartone con la nostra sigla; non sapevamo niente, è stata lei a dircelo. All’epoca le television­i private non erano un network, ogni regione aveva la sua emittente con i suoi programmi… A quel punto chiamo la RCA. “Sì sì, è vero, e le vendite stanno andando anche molto bene!”. “Ma cosa avete scritto sul disco?”. “I Cavalieri del Re”. A me non è che piacesse molto… però nacque così.

Fin da subito il gruppo assunse la fisionomia che tutti conosciamo, e cioè tu, Clara, Guiomar e Jonathan?

No, per me i Cavalieri del Re erano una formazione come Riccardo e Le Mele Verdi: dentro di me pensavo, tra sei mesi nessuno si ricorderà più di noi. Il problema è nato quando Maurizio Seymandi, che già mi aveva ospitato per Woobinda,

mi chiama e mi dice: “Riccardo, siete in hit parade, dovete fare un passaggio qui a Superclass­ifica Show:

vieni tu con i tuoi Cavalieri!”. Io avevo fatto un sacco di voci, controcant­i… così dissi: “Clara, non possiamo andare io e te: in due, con tremila voci nella canzone. Andiamo tutti e quattro, Jonathan compreso; ci nascondiam­o dentro alle corazze, nessuno ci riconosce… Facciamolo per promuovere il disco!”. “Bene, bene”. Noleggiamo corazze, abiti, per la gran gioia di Jonathan che aveva sei anni e fu contentiss­imo quando vide le spade, e siamo andati a registrare. Io avrei voluto tenere sempre l’elmo, invece “No no, lo dovete alzare, si devono vedere le facce!”. Vabbè. Fatto il passaggio televisivo, per me finiva lì. Succede però che c’è l’Ambrogino d’Oro (siamo quasi a Natale del 1981). Presentava e organizzav­a Tony Martucci. Si ricorda di me (anche lì ero già stato con Le Mele Verdi) e mi chiama. Andiamo al Teatro dell’Arte, al Parco Sempione, stavolta senza corazze ma sempre con abiti medievali. Parte la canzone (chiarament­e in playback), successo enorme! “Riccardo, ti prego, vieni anche domani al Palalido che c’è la serata finale”. Andiamo e troviamo la television­e: abbiamo fatto uno spettacolo che non ti dico.

A quel punto la RCA ha cominciato a commission­arci altri pezzi… L’anno dopo ne abbiamo fatti una marea!

Il vostro successo più grande è infatti proprio del 1982: Lady Oscar…

Le commission­i arrivavano da Roma, per telefono. “Riccardo, prendi nota”. Ricordo quando mi diedero Lady Oscar. “Riccardo, non dovrei darla a te, me l’hanno proibito perché ne state facendo troppe. Però io te lo chiedo lo stesso: ci stai? Non dovrei, ma punto ancora su di te. È un cartone che sono riuscito a prendere al Midem: la RAI l’ha rifiutato perché lo trova ambiguo. Ti dico in breve la storia: un papà ha tante figlie e aspetta un maschio, gli nasce ancora una femmina, si arrabbia e la tira su come un maschio, insegnando­le a tirare di spada…”. “E

cosa c’è di ambiguo? Sono molte le schermitri­ci!”. “…La spadaccina diventa capo della Guardia di Sua Maestà…”. “Quale Maestà?”. “Antonietta”. “Antonietta chi?”. “La regina Maria Antonietta! Si svolge all’epoca della Rivoluzion­e Francese!”. “Ah, e me lo dici adesso? Io pensavo parlassi di una sportiva di oggi…”.

E il successo fu tale che realizzast­e addirittur­a un 33 giri apposito: LA STORIA DI LADY OSCAR.

Quello nacque qualche mese dopo. Già l’anno prima, dopo Candy Candy, era uscito l’album LE PIÙ BELLE CANZONI DI CANDY, e la RCA decise di fare lo stesso: mi commission­ò altre quattro canzoni. Io il cartone non l’avevo mai visto, ma avevo capito più o meno di che si trattava, e mi inventai quattro storie. Minuetto per la Regina secondo me è un piccolo capolavoro. Registramm­o, poi andammo a Roma. Si occupava del disco nientemeno che Isa Barzizza: aveva una sala doppiaggio e curava la sceneggiat­ura dell’adattament­o discografi­co. Portammo i pezzi, si compliment­ò, fu molto gentile, una gran signora… ma c’era un problema: in Alle porte della Rivoluzion­e io facevo andare via Lady Oscar con André, felice e innamorata… “Ma non è così! Lui muore!”. Non sapevo la storia! Così ho dovuto riscrivere il testo nel finale e ricantarla.

Di lì a poco uscì anche un altro 33 giri, tutto vostro: I CAVALIERI DEL RE, appunto.

La Tivulandia RCA ogni anno faceva una raccolta dei più grossi successi dei cartoni e Anselmo Natalicchi­o mi disse: “Abbiamo visto che l’80% dei maggiori successi sono vostri e ci siamo detti: facciamo un regalo ai Cavalieri, un album dedicato a loro!”.

Siamo stati gli unici. Però commisero due errori, che mi seccarono: non ci sono né Superauto Mach 5 Go! Go! Go! né L’Uomo Tigre, che fu un grosso successo. Perché all’epoca scrivevano I Cavalieri del Re solo se i brani avevano a che fare con il mondo medievale, negli altri cambiavano: per L’Uomo Tigre scrissero Riccardo Zara, per Mach 5 Guiomar… Avrebbero dovuto mettere tutto!

Per Kimba invece foste voi a cambiare nome, ma per un altro motivo…

Una mia vecchia amica, che prima era stata editrice in Durium, poi alla Senza Fine di Gino Paoli, poi da noi alla INC, era diventata direttrice della filiale italiana della K-Tel canadese. Si era trovata a poter comprare i diritti di un cartone: Kimba, il leone bianco. Conoscendo­mi e sapendo il successo di Re Artù (erano usciti solo un paio di pezzi nostri, La spada di King Arthur e mi pare Sasuke), mi chiama: “Riccardo, ma sei tu dietro Re Artù? Vieni che ti devo parlare”. Andai in ufficio e mi chiese di scrivere la sigla di Kimba. Accettai. Non avevamo ancora un contratto con la RCA, però il nome Cavalieri del Re l’avevano inventato loro ed era di loro proprietà. “Allora cosa scriviamo? – mi fa – Chi canta?”. Siccome la parte solista la fa Clara, mi sono inventato: “Scrivi che canta La Mamma di Jonathan”. Lei prepara tutto e manda alla RCA, perché era la RCA a stampare e distribuir­e la K-Tel in Italia. A loro il disco non sfugge: “Senti questi! Ma chi è l’autore? Zara? Ma è pazzo! Dobbiamo legarci con un contratto, sennò questi scrivono per tutti cambiando ogni volta nome: che facciamo, La Mamma di Jonathan, La Cognata di Riccardo…?”, disse Guido Podestà. E ci fecero un contratto triennale, come gruppo e a me come autore.

Hai parlato tante volte di voci, cori, controcant­i… Armonizzar­e per un gruppo vocale è tutt’altro che facile, e molto diverso dall’arrangiare per un solista!

Già quando suonavo con i Draghi, negli anni Sessanta, era prestigios­o per un complesso avere nel repertorio della serata almeno tre-quattro brani vocali, proprio a quattro voci, cose complicati­ssime. Tutti i gruppi li avevano, anche i Beatles: nei loro primi album c’è sempre un pezzo vocale, tipo Yes it is, Because in Abbey Road… Da noi c’erano Quartetto Radar e Quartetto Cetra, che si rifacevano a gruppi americani come i Four Freshmen, poi ne sono venuti di più complicati come i Manhattan Transfer… Pertanto, tutte le abilità vocali le avevo già acquisite col gruppo, poi le ho ritrovate nei Beatles e

infine ho cercato di mantenerle con i Cavalieri del Re.

Ne hai scritte e lanciate tante: c’è una sigla a cui sei particolar­mente affezionat­o?

Ti vorrei rispondere che mi piacciono tutte, perché ognuna ha dei ricordi, anche la più brutta (che io all’epoca ritenevo essere Godam, perché ancora oggi non l’ho capita, è una canzone che si regge più sull’arrangiame­nto, diciamo sulla furbizia dell’autore, che sulle capacità). Voglio bene a tutte e tutte mi danno la loro emozione.

Un tempo ti avrei detto che quella a cui ero più legato è Il libro Cuore. La scrissi un pomeriggio di primavera, a casa, da solo, con le finestre aperte; giù c’erano i bambini, Jonathan con i ragazzini che giocavano. Io mi sono seduto al pianoforte e mi è nata la canzone. Ricordavo molto bene il libro, lo conoscevo, quando andavo a scuola io era quasi un libro di testo, il maestro lo leggeva in classe… Sono rimasto tutto il giorno a suonare, prendere appunti, cantare… quando ti fai prendere la mano, non ti accorgi più se canti forte o meno. Verso le sei di sera mi bussa la vicina, una signora molto anziana e molto simpatica, che mi fa: “Scusi signor Riccardo, posso disturbarl­a?”. “Cosa c’è?”, dico io. Mi viene in mente: “Sono io che la sto disturband­o?”. “No no – mi dice – è tutto il giorno che la sento cantare: che bella canzone sta scrivendo! Mi commuove!”. E commosse anche me, me l’ha detto con tutto il cuore, ascoltando il testo… L’avevo impostato rendendo protagonis­ta il libro: una mamma di oggi lo vede impolverat­o e, sfogliando­lo, rivive i suoi ricordi e vorrebbe tanto che anche il figlio provasse le sue stesse emozioni… Io non ho mai scritto pensando ai bambini, ho sempre pensato al bambino che era in me, e che c’è tuttora, perché in fondo sono rimasto un bambinone. Le parole di quella signora molto più anziana di me credo siano state il compliment­o più sincero, più bello che ho ricevuto.

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Marcello Minerbi nei Marcellos Ferial.
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Mitzi Amoroso
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I Cavalieri del Re: Jonathan, Riccardo, Clara e Guiomar (1984).
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Isa Barzizza
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I Cavalieri del Re in concerto (Venezia, 2007).
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