LA RIVINCITA DEI BRUTTI
Non si può scrivere la storia della musica leggera italiana prescindendo da Gian Franco Reverberi e da suo fratello Gian Piero.
Ifratelli Reverberi avevano le idee chiare fin da piccoli, e alla fine degli anni 50 si erano già perfettamente inseriti nel mondo musicale (Gian Franco è nato nel ’34, Gian Piero nel ’39), dove hanno fatto praticamente tutto, conosciuto tutti, dato moltissimo con le loro idee e le loro composizioni.
Gian Franco aveva compiuto da poco 16 anni, quando il direttore degli eventi e delle relazioni esterne del Casinò municipale di Sanremo Angelo Nicola Amato e il conduttore radiofonico Angelo Nizza, che dei tavoli da gioco era un assiduo frequentatore, tirarono fuori l’idea di una manifestazione musicale. L’idea venne appoggiata subito dal discografico Sugar («persona eccezionale, geniale» lo ricorda Gian Franco), che capisce immediatamente che il Festival non sarà soltanto un modo per incrementare il turismo in una stagione morta, ma anche un grande trampolino di lancio per le canzoni. Nei vari ruoli di compositore delle musiche, produttore e direttore d’orchestra, Gian Franco andrà più volte a Sanremo. Con grandi successi, brani che ancora ricordiamo, che vengono ristampati, riascoltati. E con qualche intoppo che invece gli costò, all’epoca, addirittura una casa…
Gian Franco, ti ricordi la tua prima volta al Festival?
Non saprei dirti l’anno preciso, era forse il ’58 o il ’59. Ma non sono andato con brani in gara. Non ero né compositore né direttore d’orchestra. Sono semplicemente andato con Franco Crepax, stretto collaboratore del grande Ladislao Sugar, editore e produttore discografico e fondatore della Sugar Music. Siamo andati a sentire che aria tirava. Facevamo la spola tra Casinò e sala dove si teneva il Festival, e in realtà il posto in cui ci trattenevamo di più era proprio il Casinò, come del resto tutti quelli del pubblico. Dovevo anche seguire un cantante giovane, non so chi… stavamo sempre a giocare.
Invece il tuo vero, primo Sanremo?
Con il brano Paff… bum!, scritto da Sergio Bardotti e mio fratello Gian Piero, e cantato da Lucio Dalla. Lucio era un vero personaggio e mi ero affezionato all’idea di portarlo avanti, perché lo consideravo un artista. Mi ero fissato anche con Nicola di Bari, mentre Celli, che era il direttore delle vendite, mi diceva «Non buttare i soldi con questi due, sono brutti e non piaceranno mai alle ragazzine. In più, Lucio ha la voce da vecchietto di film western, che vuoi che venda?». Ero l’unico a credere in loro. Sono riuscito a portare Lucio a Sanremo e abbiamo avuto l’idea di un’esibizione particolare. Pensando alla faccia e al carattere di Lucio, e al fatto che di solito le canzoni iniziano lente e poi c’è un crescendo per far scattare l’applauso, prima di proporre Paff… bum! avevamo inventato un pezzo in cui lui si portava un cannoncino sul palco e alla fine gli dava fuoco. Il patron, Gianni Ravera, ce lo proibì
assolutamente. Disse: «No no, il Festival è una cosa seria, questa roba non si può fare». Allora abbiamo cambiato canzone e portato Paff… bum!
Tu che ami tanto lo spettacolo, come trovi la svolta di Sanremo, che da anni è, in realtà, più che una carrellata di canzoni, un grande spettacolo?
Sono piuttosto critico, e da un pezzo. Perché è da quando dal Salone delle feste il Festival è passato all’Ariston che la canzone ha cominciato a essere un riempitivo. Ero per lo spettacolo, ora c’è solo lo spettacolo. I cantanti vengono accettati anche se portano brani brutti ma l’orchestra che li accompagna si mette in mutande.
Come si costruiva una canzone adatta alla gara?
C’erano tante persone a contribuire e… tanti espedienti. C’erano dei signori autori, direttori artistici, arrangiatori. E poi bisognava trovare un titolo giusto, una parola o una frase che ricorresse nel testo. Giorgio Calabrese, mio grandissimo amico, era bravissimo in questo. La melodia era fondamentale, andava bene anche se piuttosto astrusa, tipo quella di Se mi vuoi lasciare cantata da Michele, difficilissima da eseguire ma che aveva un’esca, qualcosa a cui l’ascoltatore abboccava: «Se mi vuoi lasciare… badibabum... dimmi almeno perché!». Quel “badibabum” musicale era fantastico. Ora vogliono fare cose impegnate e fanno vaccate, noi volevamo fare cose leggere e popolari e facevamo cose belle. Il vero problema è che prima si vendevano tanti dischi, per cui intorno al “prodotto disco” lavoravamo in tanti, mentre adesso i ragazzini, anche pieni di talento, sono costretti a farsi tutto da soli, compreso prodursi. Chiaro che se poi riescono ad andare a Sanremo devono farsi notare subito, farsi ricordare, fare notizia. Al di là della canzone.
Raccontami di Lucio Dalla e di quello strano pezzo, Paff… bum!
Andò in coppia con i famosi Yardbirds, che stavano con la Ricordi, e c’era un problema: alla RCA, di Lucio non fregava assolutamente niente. Successe quindi che mentre la Ricordi distribuì 180 mila copie della versione degli Yardbirds, la RCA ne mise in giro solo 5000 di quella di Lucio, e i negozi ebbero tutto l’interesse a smaltire le tante copie, per cui spingevano quelle. Alla RCA non sono stati lungimiranti, perché avrebbe venduto anche Lucio, che era piaciuto soprattutto ai bambini. Io che avevo investito i miei soldi mi presi una bella fregatura. Avevo dato l’anticipo per prendere una casa, ho prodotto Lucio e ho perso tutto.
Però hai prodotto anche Nicola Di Bari, e con lui non credo tu abbia perso…
Con Nicola mi sono ripagato di tutto. Funzionava così: puntavi su tre cantanti, uno andava bene e allora andavi avanti. Oggi anche se punti solo su uno e quello va bene… va male lo stesso. Si vende poco e niente. È cambiato il mondo.
Torni al Festival nel ’67, con Nicola Di Bari e con Lucio Dalla che in coppia con i Rokes cantava il brano Bisogna saper perdere, che era molto carino.
Dici? A me non piaceva proprio. Nicola Di Bari aveva un brano non mio, Guardati alle spalle, di Beretta-Monaldi-Pace-Panzeri. Nicola me l’aveva presentato Michele, era bravo, cantava in maniera modernissima e l’ho preso in produzione. Tutto vestito di nero, con gli occhiali neri, i capelli pure neri che gli coprivano la fronte… io venivo dall’insuccesso, potevo tenerlo così? La prima cosa è stata vestirlo di chiaro e schiarirgli pure i capelli…
Schiarirgli i capelli? Ma stai scherzando. E ti dico di più, lui sostiene di aver sempre scelto gli abiti da solo e a caso, e di non essersi mai toccato i capelli. Invece andò così. Per forza dovevamo farglieli schiarire, pareva uno scarafaggio. Gli ho fatto incidere Eternamente e Smile, due pezzi classici. La gente così ha scoperto un cantante.
Di Bari a Sanremo ha portato poi brani di grande successo: La prima cosa bella, arrivata seconda nel ’70 con I Ricchi e Poveri, Il cuore è uno zingaro che ha vinto nel ’71, I giorni dell’arcobaleno che ha vinto di nuovo nel ’72… complimenti, maestro!
Riguardo alla prima vittoria, non mi stupì più di tanto perché si sapeva che se arrivavi secondo ma vendevi più dischi degli altri, nel Festival successivo facilmente avresti conquistato il primo posto. Però la vittoria del ’72 fu una cosa fantastica, perché in genere il terzo anno di fila che partecipavi a Sanremo venivi quasi ignorato. Due Festival di fila li avevano vinti solo Nilla Pizzi, Domenico Modugno e Johnny Dorelli.
Tu hai girato il mondo e in vari momenti della tua vita, sempre come musicista. Dopo il servizio militare ti sei imbarcato come vibrafonista dell’orchestra dell’Olimpia, che da Genova gironzolava per due mesi nei Caraibi e per altri due mesi nei vari continenti, prima di fermarsi a New York. Più tardi, nelle vesti di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e manager, hai seguito i tuoi artisti in tante tournée, dal Giappone al Sudamerica, all’Australia. Quante soddisfazioni ti ha dato Nicola Di Bari in Sudamerica?
Infinite. Quasi incredibili a raccontarle. Mi aveva detto di aver venduto un po’ facendo un disco per la Spagna, e allora io gli ho prodotto due dischi per quel mercato… la casa discografica li ha spediti pure in Sudamerica e lì Nicola ha fatto un botto. Ho cominciato ad andare con lui in Sudamerica più volte l’anno. Ogni volta che usciva un suo disco arrivava in classifica prima lì che qui. Il brano del ’67 Giramondo, per esempio (che ho composto io insieme a Bardotti, Leva e Scommegna), qui non ha venduto niente e in Sudamerica lo mettevano in discoteca anche dieci volte in una sera.
Dobbiamo ricordare che negli anni 70 eri andato via dalla RCA per metterti in proprio. Come dici tu, «a giocare per conto mio». Già cominciavano a calare le vendite…
Sì. Con Nicola siamo andati alla Carosello, ma non è successo niente. Abbiamo continuato ancora per tre anni, facendo dischi solo per il Sudamerica, poi ho smesso del tutto per dedicarmi a cose non redditizie ma divertenti. Perché visto che non si può guadagnare, almeno bisogna divertirsi.
Quindi stop per sempre con Sanremo… quando, esattamente?
Dopo un lungo periodo in cui del Festival si parlava poco o nulla, passarono le consegne nell’89 ad Adriano Aragozzini. Lui voleva introdurre delle novità, e mi chiese subito: «Secondo te posso fare una cosa diversa?». Io gli risposi: «Fa’ una cosa che ha già funzionato, no? Una doppia versione, una col cantante italiano e una col cantante straniero».
E come è andata a finire?
Nel ’90 Aragozzini mi ha chiamato per selezionare i brani. Era il 40° anno del Festival, lo presentavano Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci. Aragozzini aveva seguito il mio consiglio: fece rientrare l’orchestra, che mancava da dieci anni, e ritornò alla formula dei cantanti stranieri abbinati a quelli italiani.