DODICILUNE LABEL DAL PROFONDO SUD APERTA AL MONDO
La Dodicilune, con le varie sussidiarie tra cui Controvento e Koinè, propone un catalogo eccezionale per vastità, varietà e qualità. Enzo Pavoni ci accompagna in questo breve viaggio dentro una realtà tra le più attive della discografia italiana.
Dalle assolate coste pugliesi, grossomodo nel leccese, quando non c’è foschia si scorgono i monti albanesi. È una terra pregna di sincretismi che ha sempre fatto da culla a incroci tra culture e razze diverse, dalla balcanica a quelle dei Paesi affacciati sul Mediterraneo.
Per la gente della Puglia, l’accoglienza è diventata col tempo una pulsione naturale, una peculiarità che ne ha incoraggiato/accelerato il cosmopolitismo. Una regione ospitale che ha dato i natali a talenti d’ogni sorta, in particolare musicisti: si pensi a Nino Rota, a Matteo Salvatore, alle Faraualla e a un bel numero di jazzisti, da Pino Minafra a Roberto Ottaviano, da Gianni Lenoci a Gaetano Partipilo, al sassofonista-poetascrittore Vittorino Curci, i quali, ovviamente, hanno esteso le loro attenzioni pure agli States: jazz, folk, ballate, rock.
Un ulteriore fiore all’occhiello della Puglia è l’attivissima Dodicilune, preziosa realtà finalizzata alla libera espressione degli artisti, celebri e non, pugliesi e non, giovani e meno giovani. È un’etichetta discografica di Lecce fondata nel 1995 da Maurizio Bizzochetti e Gabriele Rampino, appassionati e competenti, sintonizzati con l’illuminato mecenatismo di secoli addietro, intenzionati a catturare con piglio da audiofili sonorità d’ogni latitudine, evitando di ergere barriere lessicali. Più di trecento le pubblicazioni, in gran parte disponibili in compact e download, alcune in vinile. È un catalogo variegato, aperto al patrimonio musicale planetario, lodevole testimonianza di un progetto avventuroso e temerario, specie in un momento confuso come l’attuale, contaminato da un unanimismo ipocrita, da una generale scarsità di autonomia critica e da un pericoloso conformismo figlio di un’informazione mainstream sempre più a disagio col contraddittorio.
Articolate le linee editoriali della label: voce, canzone d’autore, paesaggismo descrittivo, etno-jazz, flash cameristici, jazz aleatorio, elettronica, avanguardia. Troppo ampia la produzione Dodicilune per esaminarla in toto. Conviene allora piluccare qua e là. Si ergono le squisite pubblicazioni del sassofonista-compositore barese Roberto Ottaviano, in particolare RESONANCE & RHAPSODIES, vincitore del Top Jazz 2020 indetto da «Musica Jazz». Il disco ha mietuto riconoscimenti a iosa grazie alle elaborate architetture, allo stordente tourbillon d’idee, al pathos e a un magico senso di mistero che sembra mascherare segreti impensabili: ma niente paura, si svelano man mano.
Intriga la seconda fatica della jazz singer Lisa Manosperti, affiancata dal conterraneo Ottaviano. Si tratta di WHERE THE WEST BEGINS: VOICING ORNETTE COLEMAN (2011). Non deve essere stato agevole escogitare i testi adeguati per dieci pezzi di Ornette Coleman. Un azzardo tanto unico nel suo genere, quanto riuscito: la Manosperti s’è appropriata dell’ammaliante lirismo e delle paludose radici blues del padre della new thing.
Tra i giovani, colpisce il talento cristallino di Camilla Battaglia, una figlia d’arte artefice di due perle di caratura internazionale, vale a dire: TOMORROW-2MORE ROWS OF TOMORROWS (2016) e EMIT: ROTATOR TENET (2018). La Battaglia – qualificata autrice, arrangiatrice e cantante – ha inaugurato un personale e tutt’altro che scolastico esperanto dal respiro universale.
In ambito sperimentale, spiccano i must SYZYGY (2019) di Elliott Sharp, MONKISH del quartetto Armaroli-Schiaffini e innanzitutto FROM THE ALVIN CURRAN FAKEBOOK (2017), ellittico e caleidoscopico capolavoro di CurranSchiaffini-C. Neto-Armaroli. Opere dall’afflato futuristico ossigenate dalle nobili arti della manipolazione e delle commistioni. Ai più curiosi, l’onere di spulciare il resto dei titoli Dodicilune: rimarranno con ogni probabilità piacevolmente incantati dal consolidato aperturismo multi-gergale. Enzo Pavoni
Spesso sono stati inseriti tra i gruppi prog italiani degli anni 70, ma la proposta musicale del Grosso Autunno è più vicina alla canzone d’autore che non agli emuli nostrani di King Crimson, Genesis o Yes: d’altronde il quintetto si forma a Roma nella prima metà del decennio, nello stesso periodo in cui al Folkstudio muovono i primi passi De Gregori, Venditti e tanti altri cantautori.
Il gruppo è costituito da Luciano Ceri (voce, chitarra, tastiere), Paolo Somigli (voce, basso, chitarra), Gabriele Longo (voce, flauto, chitarra, basso, percussioni), Stefano Iannucci (voce, chitarra, percussioni) e Alessandro Varzi (batteria, basso, armonica, mandolino): Ceri e Somigli hanno iniziato a suonare negli anni 60 in un complesso beat, The Moulds, e l’innesto di Longo, Iannucci e Varzi dà il via al gruppo. Il nome nasce nell’estate del 1972, quando i cinque si organizzavano per suonare in giro e uno di loro disse: “Sono sicuro che sarà un grosso autunno”: da lì il nome.
Nel 1973 il gruppo effettua un provino con la Delta, fondata da Paolo Dossena e Mario Simone (con cui collabora spesso Lilli Greco), nello studio D della RCA, ma nessuno di quei brani, acerbi e approssimativi, entrerà nel primo album.
A gennaio 1974, la Delta decide di fare incidere al gruppo un disco negli studi RCA: la band lavora alle registrazioni, sembra che sia fatta ma alcuni problemi interni portano alla sospensione delle produzioni della Delta tra cui quella del Grosso Autunno. Alcune di quelle canzoni (Per, Madrigale) troveranno posto nel primo Lp. Enzo Lamioni, regista della Hit Parade di Luttazzi, li presenta alla EMI Italiana e grazie anche a nuove canzoni che avevano scritto nel frattempo le cose si mettono per il verso giusto: registrano a maggio 1976 l’album di debutto GROSSO AUTUNNO, con una bella copertina raffigurante un pavone e un albero con le radici. Pur tra immaturità e un po’ troppa carne al fuoco risulta ancora godibile per chi ama certe sonorità acustiche: il primo brano, Omaggio, è una dedica ai Beatles in cui il testo di Iannucci su musica di Ceri è infarcito di citazioni di brani sia della band che dei quattro da solisti; altre canzoni riuscite sono Sama il fauno, flauto e percussioni in evidenza, la degregoriana Una terra giovane, con l’armonica a bocca, entrambe di Iannucci, la gucciniana Piano (di Ceri) e Per, di Iannucci e Ceri, con il flauto in evidenza e vicina a certi Pink Floyd (Cirrus Minor o Granchester Meadows). Dopo un anno, nel 1977, esce ALMANACCO, il secondo album, che ripete in maniera più matura i suoni westcoastiani del primo, musicalmente più ricco grazie ad ospiti come Adriano Giordanella alle percussioni e il chitarrista Andrea Carpi: Lontani, Frutta secca e Fiori sono i brani più riusciti. Anche il secondo album però vende poco, la EMI non è più disposta a investire sui cinque musicisti per cui il gruppo si scioglie; i componenti rimarranno nell’ambiente musicale, chi occupandosi di sonorizzazioni (Alessandro Varzi pubblicherà tre album con Stefano Torossi), chi di didattica musicale (Paolo Somigli incide qualche disco sull’improvvisazione rock-blues), chi invece come cantautore (Stefano Iannucci nel 1989 pubblicherà un album, IL VASO DI PANDORA, con Giorgio Lo Cascio, mentre Luciano Ceri incide nel 1987 CORRENTE DEL GOLFO).
Vito Vita