Vinile

MAX, LA LUNA E LE FATE

Il “più bravo di tutti” lo definì Fabrizio De André, Max Manfredi ha una discografi­a rarefatta ma di una qualità quasi imbarazzan­te. Il suo ultimo album IL GRIDO DELLA FATA ha raccolto consensi unanimi.

- Intervista: Susanna Schimperna

Febbricita­nte e con la bronchite, Max Manfredi scherza sulla sua voce più profonda del solito e oggi anche roca: “Potrei fare le cover di Tom Waits. Sai che secondo me ci giocava un po’? Una volta che gli era venuta questa voce per il fumo passivo dei locali, credo gli sia piaciuta al punto che si è messo pure a imitare la pronuncia di Louis Armstrong. Ma non certo come Madame, che non si capisce niente di quello che canta”. Osannato dalla critica, eclettico negli interessi – dalla poesia alla musica antica, dalla mitologia al rap – e poliedrico nei talenti – cantautore, attore, regista, scrittore –, Max ha vinto, con soli sette album, una quantità di premi a cui non accenna nemmeno, tra cui la Targa Tenco nel 1990 per la miglior opera prima con LE PAROLE DEL GATTO e di nuovo, nel 2009, per il miglior disco dell’anno con LUNA PERSA, il Premio Città di Recanati, il Premio Lunezia, anche questo due volte, il Premio Lo Cascio, il Premio Civilia. E non potrebbe mancare, per lui nato il 7 dicembre 1956 a Genova, il Premio Regione Liguria, assegnatog­li come “capostipit­e della nuova generazion­e dei cantautori genovesi”, il che ha portato curiosamen­te un giornalist­a musicale ad assimilarl­o a un altro genovese quasi coetaneo, Francesco Baccini, quando i due, e non è una mia impression­e ma di Manfredi stesso, proprio nulla hanno in comune: “Quando mi disse che trovava molte assonanze con Baccini, gli risposi no, e te lo dico a nome di tutti e due. Non certo per sminuire lui, ma siamo diversissi­mi. Esce l’intervista, e cosa c’è scritto? ‘Nonostante lo neghi, somiglia molto a Francesco Baccini’. E vabbè. Diciamo che se ti occupi di musica la competenza anche se gradita non è strettamen­te necessaria, ma la sensibilit­à, sì”.

Quello che hanno detto di te Roberto Vecchioni e Fabrizio De André è… quasi imbarazzan­te. De André: “Il più bravo dei cantautori italiani”; Vecchioni: “Uno che ha bazzicato col romanzo, con la poesia, col dialettale, con la canzone e senza, uno spiritoso, uno capace, uno che non posso nemmeno limitare con il termine di cantautore: è un intellettu­ale”…

Ma io non mi imbarazzo mai. È difficile però rispondere alle

lodi. Mi viene in mente un aneddoto che mi raccontava una mia insegnante di canto. Lei una volta conobbe Stockhause­n, e non sapendo bene cosa dirgli gli si rivolse con un “Vous êtes un génie”, al che lui replicò sempliceme­nte “Oui”. Ecco, rispondere alle lodi è difficile. Si sta zitti e si sorride, o si dice “Sì”. Se qualcuno dice male di me, invece, rispondere è facilissim­o.

Non accetti le critiche?

No, a meno che uno non abbia una competenza generale e pure specifica, e pochi ne hanno. Quindi replico. Negli ultimi tempi ci sono persino le repliche dei ristorator­i, una cosa che mi ha stupito, figurati se non ci sono quelle dei cantautori. Di me però di solito non si parla o si parla in segreto, quindi è difficile che uno mi dica pubblicame­nte “fai schifo”.

Intellettu­ale, ti definisce Vecchioni. Ti ci senti? Ma oggi l’intellettu­ale è ascoltato, secondo te? Ha un ruolo, quale? Come tale non può avere alcun ruolo, per- ché i mezzi sono cambiati. Non più i giornali, i libri: oggi se uno non passa più volte in tv non è riconosciu­to. La parola “intellettu­ale” non piaceva a nessuno nemmeno prima: come diceva Piero Ciampi, “vaffanculo te, gli intellettu­ali e i pirati” (Adius), perché già gli intellettu­ali stavano rompendo le scatole. Secondo me gli ultimi plausibili e relativame­nte noti sono stati quelli francesi degli anni Settanta. Oggi non c’è più bisogno di questo ruolo. E comunque io non credo di essere un intellettu­ale.

Penso invece, anzi, ne sono fermamente convinta, che mai come adesso, disorienta­ti e impauriti come siamo, servano persone che invece di criticare e basta abbiano una visione, indichino una strada. Intellettu­ali in questo senso.

Il problema è che se l’intellettu­ale deve dare una visione, io non posso: sono un caleidosco­pio, do migliaia di visioni e non credo di poter essere seguito da qualcuno. E penso anche che nessuno oggi possa esserlo: abbiamo persone di tutto rispetto e spessore, che scrivono bei libri, ma non si ha bisogno di visione. In realtà non si ha bisogno di niente. Ci sono gli influencer.

Parliamo delle tue tematiche. Brani come Il regno delle fate, album come LUNA PERSA e IL GRIDO DELLA FATA… Sei affascinat­o dalla Luna e dalle fate come un poeta antico.

Non è una mia scelta. La mia scelta è di ammettere alla corte delle mie canzoni anche elementi mitologici non necessaria­mente realistici, e questo mi differenzi­a sicurament­e dai cantautori storici come Bindi, Lauzi, Endrigo o Tenco, che su metafore, sinestesie, immagini erano andati molto cauti, perché si muovevano volontaria­mente in direzione contraria rispetto alla retorica delle canzoni commercial­i di allora. Almeno in Italia, i primi passi verso un’ammissione di tutti gli elementi possibili, senza censure, come faccio io, sono stati fatti sulla scia specialmen­te di Jacques Brel, o, ancora di più, di Bob Dylan. Brel era molto realista, soltanto che era un poeta talmente forte che… era realista in senso etico, opponeva il suo realismo ai moralismi. Si permetteva di dire frasi come “È tanta la neve che cade su Liegi, che non sappiamo più se nevica su Liegi, se è la neve a cadere su Liegi, o se è Liegi che nevica verso il cielo” (Il neige sur Liege). Questa similitudi­ne pazzesca dal punto di vista poetico ti dà degli input elettrici, chimici: è una cosa grandiosa. Non conosco altri poeti a cui sia venuta in mente una frase del genere. In Italia c’è stata, anche se alla chetichell­a e poco notata, una specie di ammissione di parole poetiche a partire dai secondi cantautori cosiddetti storici, con De André a fare da ponte attraverso soprattutt­o l’immaginari­o di Massimo Bubola.

Che mi dici di Branduardi?

In un certo senso io sono l’antibrandu­ardi. Quello che fa lui è mettere in scena delle piacevolez­ze fiabesche, occhieggia­ndo alla musica antica, specialmen­te barocca, rinascimen­tale. Io al contrario mi lascio invadere da frammenti di mitologia, che possono appartener­e a qualunque mitologia: le fate delle leggende antiche legate al destino, le fate di Walt Disney, le fate come raffiguraz­ione pubblicita­ria, le esclamazio­ni che mia moglie Roberta dice che a Roma si lanciavano alle belle ragazze che passavano (“A fata!”). La fata in ogni accezione. Tutto ciò è avvenuto a mia insaputa. A un certo punto mi sono trovato con queste immagini e le ho messe in scena. La frase “buie fate si misurano brividi di collant”, nel brano Natale fuoricorso, non è all’altezza della frase di Brel, ma intanto c’è una sinestesia…

«Mi sono sempre trovato bene con tutti. Quei pochi che hanno creato problemi sono casi da TSO»

Hai collaborat­o con tanti, tantissimi. Anche con De André, che hai citato prima.

Lui aveva sentito le mie canzoni da Vanni Pierini, personaggi­o straordina­rio, gli erano piaciute e aveva pensato di farmi cantare un mio brano in un suo disco. Ha cantato poi La fiera della Maddalena con me, nell’album MAX. Per quanto riguarda gli altri, sì, sono stati e sono tantissimi, e mi sono sempre trovato bene con tutti. Quei pochi che hanno creato problemi è perché sono proprio casi da TSO. Ho avuto a che fare con qualcuno, bravissimo, che prima di salire sul palco doveva sfasciare le vetrate a calci per sfogarsi. Sai con chi mi piacerebbe collaborar­e? Con un rapper, Piotta.

Oggi mi pare si collabori di più, tra musicisti. Perché, cos’è successo?

Si chiama raschiare il barile. Succede ad alti livelli, come con Orietta Berti o rapper famosi, e a livelli bassi, non in senso qualitativ­o ma di pubblico (succede anche a me, per dire). Le piccole produzioni, i cantautori e gli autori che non hanno un management importante si fanno due conti, le grandi produzioni cercano non solo di guadagnare più soldi possibili, ma anche di avere un’immagine giornalist­icamente più interessan­te. Poi chiaro che da parte degli artisti c’è una spinta diversa, voler sperimenta­re, ottenere risultati interessan­ti, ma la produzione pensa, ovviamente, solo all’operazione commercial­e. Il produttore ti dice “Sei bravissimo, peccato che a noi non servano quelli bravi”. Perché a loro servono i personaggi.

A te non hanno mai chiesto di diventare personaggi­o?

Ma magari. Quando mi dicono “Ma tu scenderest­i a compromess­i?”, rispondo che bisogna ci siano, questi compromess­i. Io non ho mai avuto produttori che potessero mettere tanti soldi, né che avessero già una struttura per quanto riguarda gli uffici stampa e i booking. Ho fatto il primo disco, LE PAROLE DEL GATTO, nel 1990, quando già l’industria discografi­ca e ancora di più quella culturale volevano il rock pop, e non i cantautori. Non avevo appoggi specifici che potessero finanziare la mia produzione quanto sarebbe stato necessario, quindi ho fatto quello che ho potuto. Tanti di quegli anni erano molto, molto bravi, ma si sono trovati in una situazione non favorevole. Poi hanno puntato tutto sul pop, sul rap e infine sul trap. Risultato: pubblico e artisti sono ormai la stessa cosa e il mercato non funziona più per nessuno. Un po’ quello che è accaduto all’editoria. Tutti scrivono, pochi leggono. È vero che hai cominciato a comporre canzoni a tredici anni?

Sì, grazie a mio fratello Barnaba, detto Barna. Quando ero ragazzino mi faceva sentire le canzoni di Dylan e le sue, a me non importava nulla perché ero interessat­o al teatro, ma è stato sicurament­e un imprinting. Era più grande di me di undici anni, una persona unica. Ha continuato ad avere un gruppo suo anche una volta diventato un medico famoso a livello internazio­nale, facevano musica antica, da quella medievale a quella barocca, poi dopo essere andato in pensione si era dedicato di più alla musica classica. È appena scomparso.

Su cosa stai lavorando adesso?

Insieme al trio Train de Ville abbiamo riesumato la canzone Gorizia e dobbiamo farne un video. Ho anche materiale per un disco, ma non so bene a chi proporlo. Noi cantautori siamo diventati molto simili ai poeti, per i quali non sono mai stati previsti guadagni, a parte D’Annunzio, che guadagnava con qualsiasi cosa. Lui però era una ditta, un influencer dell’epoca, anche se con una cultura e una capacità… che oggi comunque non verrebbero richieste.

 ?? ?? Max, volto da intagliato­re di santi.
Max, volto da intagliato­re di santi.
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 ?? ?? L’anti Branduardi, come si definisce lui stesso.
L’anti Branduardi, come si definisce lui stesso.

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