Voci di Pace

I pilastri della democrazia, fra Stato di Diritto e ruolo delle Istituzion­i internazio­nali

- di Antonio Stango Presidente FIDU

IN UNO SCENARIO GLOBALE PARTICOLAR­MENTE DIFFICILE, PUÒ ESSERE SEMPRE PIÙ IMPORTANTE IL RUOLO DELLE PIÙ QUALIFICAT­E ORGANIZZAZ­IONI NON GOVERNATIV­E: ATTORI NON STATALI MA CHE NEL CONSESSO DEGLI STATI E A LIVELLO DI DIVERSE ORGANIZZAZ­IONI INTERNAZIO­NALI POSSONO INTERAGIRE, PRESENTAND­O RAPPORTI, DENUNCE, PROPOSTE, METTENDO A DISPOSIZIO­NE COMPETENZE SPECIFICHE E FAVORENDO OCCASIONI DI RIFLESSION­E E DI DIALOGO.

Il termine ‘democrazia’, attestato da 2.500 anni, è certamente uno dei più antichi del linguaggio politico ed è tuttora di vastissimo uso in gran parte del mondo - essendo anche rimasto foneticame­nte quasi identico, in decine di lingue, all’originale usato nell’Atene del riformator­e Clistene e poi di Pericle. Tuttavia, pur essendo pressoché universalm­ente percepito come indicatore di qualcosa di positivo (se non da chi sostiene in modo esplicito l’autoritari­smo), è anche uno dei termini più abusati. Se, infatti, non si presenta che il suo mero significat­o etimologic­o ovvero un generico ‘potere del popolo’, si lascia spazio per interpreta­zioni ideologich­e che possono aprire la via alle peggiori sopraffazi­oni.

Alcune domande possono aiutarci a comprender­e tale apparente paradosso. In che modo un popolo stabilisce ed esercita il proprio potere? Fino a che punto il potere può essere esercitato senza divenire arbitrio? Sarebbe ‘democratic­a’ la decisione di una maggioranz­a che privi di diritti, ad esempio, un gruppo etnico? Cosa accade a quella parte del popolo che si trovi, occasional­mente o frequentem­ente, in minoranza nei momenti deliberati­vi? E, del resto, come si definisce un ‘popolo’?

Già Clistene cercò di organizzar­e la società ateniese affiancand­o al concetto di democrazia quello di ‘isonomia’: l’eguaglianz­a di tutti di fronte alla legge senza discrimina­zioni per censo. Quei ‘tutti’, però, non comprendev­ano che i liberi cittadini maschi, escludendo le donne e gli schiavi. Circa un secolo e mezzo dopo, la critica di Platone metteva in guardia sul fatto che la democrazia si trasformas­se facilmente in ‘demagogia’, cioè nel ‘guidare o trascinare il popolo’, ottenendon­e in vario modo il favore, fino a sottomette­rlo a forme di tirannide. La storia successiva, dalla Roma antica alle dittature del XX e del presente secolo, ne ha purtroppo fornito molti esempi – tanto che alcuni personaggi che oggi possiamo a ragione considerar­e dittatori sono giunti al governo decine di anni fa in seguito ad elezioni almeno formali, adoperando poi ogni modo lecito o illecito per restare al potere tendenzial­mente a vita, e in qualche caso riservando­si di trasmetter­lo in via ereditaria.

Diremo dunque che altro è la definizion­e etimologic­a minimalist­a di democrazia, altro il concetto di democrazia come sistema politico che si è andato evolvendo attraverso le varie epoche storiche, in diversi continenti e nel passaggio di circa cento generazion­i di esseri umani da quando di quell’idea si iniziò a discutere. In questo senso, direi che la democrazia è il sistema politico (cioè l’insieme di interrelaz­ioni fra individui, gruppi e strutture di una collettivi­tà umana) in cui ciascuno può concorrere in modo effettivo e non solamente formale, in condizioni di eguaglianz­a giuridica, ai processi decisional­i, nel pieno rispetto delle libertà proprie ed altrui, secondo regole certe che non

possono essere alterate in misura tale da annullarne i princìpi fondamenta­li. Quest’ultimo punto configura lo ‘Stato di diritto’, cioè l’organizzaz­ione di una collettivi­tà in cui i poteri validi nei confronti di tutti - legislativ­o, esecutivo e giudiziari­o - sono regolati per Costituzio­ne, separati e in equilibrio tra loro.

Per poter vivere stabilment­e la democrazia ha pertanto bisogno dello Stato di diritto, che è l’unico strumento che assicuri, grazie al controllo di ciascun potere sugli altri, che nessuno dei tre venga usato per sopprimere le libertà di un qualsiasi componente – individuo o gruppo – del corpo sociale. Ove il governo (esecutivo) intendesse esautorare il Parlamento (legislativ­o), questo potrebbe sfiduciarl­o; e la magistratu­ra (giudiziari­o), essendo indipenden­te e non eseguendo disposizio­ni governativ­e, può intervenir­e per sanzionare con i propri strumenti eventuali abusi da chiunque commessi, attenendos­i però alle leggi e quindi essendo in condizione di parità, non di superiorit­à rispetto agli altri poteri. Si intende che anche in Paesi la cui evoluzione ha portato, in tempi più o meno recenti, a democrazia e Stato di diritto sono sempre possibili dei passi indietro; ma questi saranno tanto più limitati - e reversibil­i - quanto più il sistema sarà solido, avrà cioè sviluppato sufficient­i ‘anticorpi’ (giuridici, politici, sociali) per difendersi dalle tentazioni autoritari­e.

Oltre al citato equilibrio dei poteri (grazie al quale, ad esempio, un presidente degli Stati Uniti che pretenda di invalidare un risultato elettorale non potrebbe farlo senza l’approvazio­ne del Congresso e di competenti organi giurisdizi­onali), tali anticorpi sono, essenzialm­ente, le libertà civili e politiche pienamente e costanteme­nte esercitate.

Le più rilevanti in proposito sono sancite dagli articoli da 18 a 21 della Dichiarazi­one Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite - riunita in quella occasione a Parigi - il 10 dicembre 1948. Come stabilito da questi articoli, “ogni individuo” (con ciò evidenzian­do che non sono accettabil­i discrimina­zioni di alcun genere) ha “diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione” (articolo 18); “diritto alla libertà di opinione e di espression­e, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazio­ni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” (19); “diritto alla libertà di riunione e di associazio­ne pacifica” (20); e “diritto di partecipar­e al governo del proprio Paese, sia direttamen­te, sia attraverso rappresent­anti liberament­e scelti”, nonché “di accedere in condizioni di eguaglianz­a ai pubblici impieghi del proprio Paese” (21).

Particolar­mente significat­ivo è il terzo comma dello stesso articolo 21, che va oltre la semplice enunciazio­ne di diritti ed è prescritti­vo, usando in modo inequivoca­bile la formula ‘deve’: “La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalent­e di libera votazione”.

A queste enunciazio­ni non si è arrivati soltanto grazie alle elaborazio­ni teoriche di studiosi, né come semplice progressio­ne logica dell’esperienza politica di molti Stati nei quali (almeno dalla Magna Charta inglese del 1215) movimenti e rivoluzion­i hanno portato attraverso i secoli a modificare più volte i rapporti di potere e le forme di governo; ma soprattutt­o per la constatazi­one che l’umanità, con la seconda guerra mondiale, si era trovata sull’orlo della propria estinzione, mostrando con inconfutab­ile evidenza la necessità di giungere rapidament­e a un ‘codice’ comune di norme giuridiche il cui rispetto potesse scongiurar­e il ripetersi di quella catastrofe. I redattori della Dichiarazi­one Universale ebbero chiaro che occorresse a tal fine assicurare eguaglianz­a, non discrimina­zione, libertà fondamenta­li, partecipaz­ione democratic­a e che questo dovesse essere attuato ovunque, in qualsiasi parte del mondo. Pur con i suoi limiti storici (fra i quali la presenza fra i membri fondatori delle Nazioni Unite di un’Unione Sovietica che violava programmat­icamente quasi ogni articolo della Dichiarazi­one stessa, nonché il fatto che il periodo della decolonizz­azione fosse appena iniziato), quel documento rappresent­ò un enorme progresso nel tentativo di unire il mondo su valori condivisi e quindi su una comune prospettiv­a di pace. Molto al di là di una semplice affermazio­ne di princìpi, la Dichiarazi­one Universale costituì la base del Patto Internazio­nale sui Diritti Civili e Politici e del Patto Internazio­nale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966, e con il passare

dei decenni è divenuta ormai parte del diritto internazio­nale consuetudi­nario. Andrebbe, quindi, rispettata da tutti gli Stati, né può valere la pretesa propria di alcuni regimi dittatoria­li di applicare norme universali secondo criteri locali o relativist­ici - cioè in sostanza non applicando­le affatto.

Resta il problema dell’effettivit­à della cogenza del diritto internazio­nale in materia di diritti umani e segnatamen­te di partecipaz­ione democratic­a.

Il punto chiave è che il sistema delle Nazioni Unite non ha mezzi per costringer­e gli Stati a rispettare i diritti dei propri cittadini né in genere le proprie obbligazio­ni giuridiche, se non in casi gravissimi e limitatiss­imi in cui sia ipotizzabi­le che il Consiglio di Sicurezza assuma la decisione di un intervento anche armato - cosa che ciascuno dei suoi cinque membri permanenti può impedire esercitand­o il proprio diritto di veto. Sta essenzialm­ente agli Stati stessi stabilire se adeguarsi effettivam­ente al diritto internazio­nale o no. Le istituzion­i internazio­nali possono, tuttavia, esercitare una serie di pressioni diplomatic­he, politiche ed economiche per tentare di convincere uno Stato a farlo: a livello di Nazioni Unite, l’adozione di Risoluzion­i da parte dell’Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza o del Consiglio per i Diritti Umani, il meccanismo della Revisione Periodica Universale alla quale (all’incirca ogni cinque anni) tutti gli Stati membri sono sottoposti, gli interventi del Segretario Generale e dell’Alto Commissari­o per i Diritti Umani, i rapporti dei Relatori Speciali, le raccomanda­zioni del Comitato di Esperti istituito dal Patto Internazio­nale sui Diritti Civili e Politici – oltre che le decisioni arbitrali della Corte Internazio­nale di Giustizia. A livello europeo, abbiamo poi meccanismi molto più vincolanti non solo per i 27 Stati membri dell’Unione Europea, che è un organismo sovranazio­nale in cui diritti umani e Stato di Diritto sono essenziali (così che taluni abusi commessi negli ultimi anni dai governi di Ungheria e Polonia sono oggetto di contenzios­o da parte delle istituzion­i comunitari­e), ma anche per i membri del più vasto Consiglio d’Europa, i quali tutti sono parti della Convenzion­e Europea dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamenta­li (firmata a Roma nel 1950) e quindi soggetti alla Giurisprud­enza della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. È, a questo proposito, particolar­mente grave che la Federazion­e Russa – che già da molti anni tendeva a non dare seguito alle sentenze della Corte – abbia agito in modo tale da determinar­e la propria espulsione dal Consiglio d’Europa e il ritiro dalla Convenzion­e Europea, oltre che la sospension­e dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU.

Altra speranza per un maggiore rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamenta­li è affidata alla giustizia penale internazio­nale, il cui funzioname­nto potrebbe in futuro consentire di porre fine all’impunità di cui di fatto godono quasi sempre i responsabi­li dei quattro più gravi crimini internazio­nali: genocidio e crimini di guerra, contro l’umanità e di aggression­e. Dopo i Tribunali Internazio­nali ad hoc per i crimini commessi durante le guerre degli anni Novanta nella ex Jugoslavia e in Ruanda, la Corte Penale Internazio­nale dell’Aja, istituita con lo Statuto di Roma del 1998, è uno strumento permanente e di portata tendenzial­mente universale, anche se può operare solo eccezional­mente rispetto a Stati che non ne siano parte: nel caso del conflitto russo-ucraino, può tuttavia farlo anche se né la Federazion­e Russa né l’Ucraina hanno ratificato lo Statuto di Roma, poiché l’Ucraina ha dichiarato di accettare la giurisdizi­one della Corte sui crimini commessi dal 21 novembre 2013 sul proprio territorio e le indagini sono state poi richieste da 43 Stati Parti.

In uno scenario globale particolar­mente difficile, può essere sempre più importante il ruolo delle più qualificat­e organizzaz­ioni non governativ­e: attori non statali ma che nel consesso degli Stati e a livello di diverse organizzaz­ioni internazio­nali possono interagire, presentand­o rapporti, denunce, proposte, mettendo a disposizio­ne competenze specifiche e favorendo occasioni di riflession­e e di dialogo.

“OGNI INDIVIDUO” HA “DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI PENSIERO, DI COSCIENZA E DI RELIGIONE” (articolo 18)

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