ABOUT MUSIC. Emotions in concert, by Antonio Privitera.
Oltre il pentagramma. Suonare è una cura che guarisce. Non serve conoscere le note per esprimere e vincere il proprio disagio
Va ampliandosi il numero di musicisti che non trovano più appagamento nella classica esibizione dal vivo: loro sul palco, davanti una platea che applaude passiva. Così, per non sentirsi più “separati in scena”, molti strumentisti approdano alla musicoterapia. «Nell’ambito musicale classico c’è molta distanza tra l’esecutore e il pubblico», spiega Ferdinando Suvini, presidente dell’Associazione Italiana Professionisti della Musicoterapia. «Noi invece lavoriamo per abbattere questo muro, perché cerchiamo una comunicazione molto più diretta». Suvini, diplomato al Conservatorio di Milano in violoncello, ha deciso di svincolarsi da ogni precetto teorico. «Il nostro campo d’azione è la musicalità: un elemento universale che va oltre le conoscenze tecniche». Il linguaggio musicale, infatti, non ha necessariamente a che fare con spartiti o metrica. È un ponte che aiuta a veicolare le proprie emozioni, conducendo a uno stato emotivo di felicità. «In musicoterapia usiamo strumenti semplici come tamburi, cembali, maracas, triangoli o xilofoni, in modo che pure chi non ha competenze tecniche in materia si può esprimere liberamente». Poiché il benessere è connesso alla collettività, alla comunicazione di gruppo, «si suona tutti in contemporanea. Con l’improvvisazione si descrive il passaggio dalla rabbia alla serenità, dalla paura alla gioia». Ma la musicoterapia ha svariati metodi d’azione. Per questo l’Aim, con la Fondazione Sacra Famiglia, organizza il 19 di questo mese, a Cesano Boscone (Mi), il Convegno Internazionale di Musicoterapia. L’obiettivo è permettere ai massimi esponenti del settore di confrontarsi su un tema in costante crescita, come conferma l’aumento dei centri che studiano la materia, cui spesso va il supporto di grandi festival internazionali. Per esempio, una quota di ogni biglietto venduto per il Raggamuffin Festival, che si terrà il 20 febbraio alla Trusts Arena di Auckland in Nuova Zelanda, sarà devoluta al Raukatauri Music Therapy Centre, ide- ato dalla cantautrice maori Hinewehi Mohi. La presenza più capillare di centri di musicoterapia oggi è quella offerta dai centri Benenzon – quattordici strutture sparse nel mondo operanti secondo il metodo del suo fondatore, l’argentino Rolando Omar Benenzon, il massimo esperto nel campo con oltre cinquanta anni di attività. «Il malessere che caratterizza la nostra società», spiega, «è dovuto alla rottura della comunicatività col prossimo. Riaprendo questo canale potremmo vivere tutti meglio». Per riuscirvi occorre lavorare sui nostri primissimi ricordi. «Quando parliamo di musicoterapia si pensa, sbagliando, a suoni strutturati, a Beethoven o a Chopin. Io invece rievoco memorie ancestrali attraverso sonorità più istintive». Si cerca di far riemergere i ricordi fetali. «Lavoro molto coi suoni prodotti dall’acqua. O coi bassi che ripetono la cadenza binaria del battito cardiaco. Del resto è su questo elemento che si basano i ritmi creati dalle tribù africane, ma anche, più in generale, quelli usati per la house music da discoteca». La musicoterapia sfida anche i suoi studiosi, costringendoli a mettere da parte l’ego artistico. «Il vero musicista è frustrato quando lavora con la musicoterapia. Il mio strumento è il pianoforte, ma non posso usarlo perché non operiamo sui canoni dell’estetica dei suoni. Per questo in musicoterapia si può raggiungere uno stato emotivo di felicità anche attraverso i rumori o il frastuono».