LA MODA È UNA COSA SERIA,
Ha iniziato con un blog nel 2007. Oggi Imran Amed, il fondatore di The Business of Fashion, è considerato una delle personalità più influenti del settore: «Non siamo qui a scrivere di ciò che ci piace ma di ciò che è rilevante e influente e di cosa funziona». Così, ad esempio, al made in Italy consiglia... Gli uffici londinesi di The Business of Fashion si trovano in Great Titchfield Street, arteria a nord di Oxford Street, in zona Fitzrovia. Già rifugio di artisti e scrittori, fra i quali Virginia Woolf, da qualche tempo l’area gode di una ritrovata centralità grazie a un mix di commercio, residenze di lusso, imprese old e new economy, molti media, diversa tecnologia, un po’ di moda. Il luogo ideale per ospitare la nuova fase di questa avventura notevole che porta il nome di The Business of Fashion, oggi una delle media company più autorevoli nel campo, col suo sistema fatto di un sito molto consultato, una newsletter, un semestrale cartaceo, una serie di eventi fra cui l’ambito Voices. In realtà, The Business of Fashion (da qui in poi BoF) ha finito per valere molto più della somma delle attività elencate qui sopra, e ha permesso al suo fondatore Imran Amed di costruirsi una reputazione che lo rende oggi, all’unanimità, una delle personalità più influenti del fashion system globale. La storiografia ufficiale colloca le origini di BoF fra le pagine primordiali di un blog personale aperto «dal sofà di casa sua a Notting Hill», che nell’epopea di Amed vale un po’ i leggendari garage della Silicon Valley. È il 2007 e Amed, canadese di origini indiane, una carriera avviata in management consulting presso McKinsey, apre il blog per dare sfogo alla sua passione per il mondo della moda, cui inizia a guardare da una prospettiva laterale, quella appunto di un consulente con un master ad Harvard in business administration. Una angolazione che lo porterà a fare di BoF un progetto di vita e di impresa e a raccogliere, nel 2013, un round di finanziamenti guidato da Index Ventures di due milioni e mezzo di dollari. Lo sguardo di un outsider che lo proietterà, nel giro di pochi anni, nel cuore del fashion system. «Per me questo è un punto fondamentale. A BoF cerchiamo di essere degli insider che mantengono una prospettiva da outsider», racconta Amed dal divano del suo ufficio. «Questa sensazione di aver approcciato la moda facendo parte di un altro mondo non si cancella. Quello che è completamente cambiato, e che fa di noi degli insider ormai, è che le persone rilevanti in questo campo vogliono sedersi e parlare con me, con noi. E credo che questo sia molto importante. Ma credo che sia altrettanto importante farlo mantenendo uno sguardo aperto: non parlare di moda come se ne parla nella bolla di quel mondo, ma farlo in relazione alle cose più grandi che succedono ovunque, dalla tecnologia all’economia, dai cambiamenti sociali e culturali alla politica. Credo che questo faccia la differenza: praticamente nessuno qui a BoF ha studiato fashion – siamo settanta ormai –, alcuni sono avvocati, alcuni ingegneri, alcuni sono laureati in inglese, altri in chimica». La moda vista da fuori, il racconto più simile a quello di una start up che a quello di una redazione glamour; sono sottolineature dettate dall’esigenza di farsi percepire diversi da chi in quella famosa bolla vive e prospera. Però è vero che, se si osservano Imran Amed e BoF, quello che ha fatto di loro ciò che sono oggi è stato proprio il saper coniugare la passione per la moda con i modelli di analisi propri dell’economia e della tecnologia. «La moda,» continua Amed, «è simile all’industria della musica o a quella del cinema: c’è un elemento creativo alla base, ma poi ci sono un sistema industriale e un modello di business che lo sostengono. Mi ricordo che crescendo vedevo i giornali musicali tipo “Billboard”. Mi piacevano analisi e classifiche, ma non trovavo nulla di tutto ciò applicato al fashion. Ho iniziato BoF per curiosità, per la voglia di capire un mondo che mi appassiona, non con l’idea precisa di riempire un buco, che pure c’era».
«Non parlare di moda come se ne parla nella bolla di quel mondo, ma farlo in relazione alle cose più grandi che succedono ovunque, dalla tecnologia all’economia, dai cambiamenti sociali e culturali alla politica: credo che questo faccia la differenza». *Fondatore e direttore del magazine “Rivista Studio”.
Già, la comunità. L’eldorado, ricercato oggi da praticamente chiunque si occupi di consumi non di prima necessità, è un altro punto di forza di BoF, che proprio attorno al concetto di comunità ha strutturato la sua attività. Una comunità divisa per fasce, così come la descrive Amed disegnandola su un foglio: nella prima ci sono gli studenti e gli outsider, quelli che vogliono entrare a far parte di questo mondo; nella seconda ecco i professionisti, quelli che ci lavorano a tempo pieno; nella terza, infine, quelli che la moda la fanno, la influenzano, la decidono. Quelli che, come detto prima dallo stesso Amed, vogliono sedersi e parlare con lui, «a volte per raccontarmi cosa stanno facendo, a volte per chiedere consigli, altre semplicemente perché gli presenti qualcuno». Il cerchio più stretto della comunità di BoF è senza dubbio quello di BoF 500, l’elenco delle cinquecento persone più influenti del fashion system, una delle liste più ambite nell’industria. Quando chiediamo lumi ad Amed sui criteri di selezione, per sua stessa ammissione l’approccio rigoroso da consulente McKinsey lascia spazio alla passione per questo mondo e per chi lo vive: «Accettiamo nomination da chi già fa parte dei cinquecento e poi facciamo le nostre ricerche, sempre con l’intento di rappresentare l’industria a livello globale. A volte lo stesso nome viene fatto più volte, e quindi andiamo a vedere chi è e quanto è rilevante. Le persone influenti contribuiscono ad alimentare la lista». Visto che siamo in tema, chiediamo a Imran Amed chi sono per lui oggi le personalità che davvero influenzano la moda, da un punto di vista creativo. Qui si alza dal divano, cammina verso le copertine del semestrale cartaceo di BoF appese dietro la sua scrivania, ne indica due, ne cerca una terza, e risponde: «Credo che oggi queste persone siano tre: Alessandro Michele, Jonathan Anderson e Demna Gvasalia. Fra Gucci, Balenciaga, Vetements, JW Anderson e Loewe, stanno davvero lasciando un segno che rimarrà». Risposta secca, senza esitazioni. Loro e basta? Amed ci pensa e aggiunge: «Poi ci sono altri come Virgil Abloh con Off-White…». Lo interrompo per fargli notare come Abloh sia una di quelle figure che dividono gli osservatori: c’è chi pensa sia un genio e chi storce il naso e non lo ritiene all’altezza. Su questo Amed ha un punto di vista preciso: «Capisco, ma non sta a me giudicare, credo siano i clienti con le loro scelte a dare il giudizio che conta di più. E se parli con i negozianti, ne sono entusiasti. Chi compra le sue cose è interessato a lui, non sta a guardare come viene giudicato dagli addetti ai lavori. È la mia estetica? No. È rilevante oggi? Molto. E io, noi, non siamo qui a scrivere di ciò che ci piace ma di ciò che è rilevante e influente e di cosa funziona. Basandoci sui fatti e sulle informazioni che abbiamo. Con BoF produciamo un ranking, basato su dati reali incrociati e vari parametri, dei brand con le migliori performance: Off-White qualche mese fa era al numero trentaquattro, oggi è al terzo posto, dopo Balenciaga e Gucci. Ci tengo a ribadire un concetto: il gusto e la creatività contano, ma poi ci sono i fatti, i dati. E i dati dicono questo. La moda non li può più ignorare». Dopotutto, è proprio nell’era dei dati che viviamo, il carburante alla base della rivoluzione tecnologica in atto, e, secondo Amed, la moda non li utilizza abbastanza e in maniera convinta. Quando gli chiediamo cosa pensi dei grandi cambiamenti in atto, del futuro dei negozi per esempio, o delle stagioni della moda, delle sfilate, Amed risponde con passione: «I negozi non scompariranno mai. È il ruolo che hanno e avranno nell’esperienza di consumo delle persone che sta cambiando completamente. Le stagioni, e con loro in parte anche le sfilate, sono una cosa molto più difficile da cambiare, perché dovresti ripensare davvero tutto. Però credo che il momento del ripensamento sia arrivato. Le catene di fast fashion funzionano per i prezzi, certo, ma la loro vera forza è un’altra: sapere sempre cosa vuole il loro cliente, e farglielo sempre trovare in negozio. La lezione per i marchi è capire che questo è possibile solo avendo un feedback continuo da chi compra, interagendo e utilizzando e analizzando sempre meglio i dati. Operare in maniera rapida e responsive, questa è la direzione in cui stiamo andando». Vale anche per l’Italia? «Certo. Da McKinsey, per analizzare un’azienda partivamo dall’individuare cosa la rendesse unica e speciale. Ora, messo da parte tutto il dibattito su quale città della moda sia più importante – credo sia un gioco sterile che non centra il punto, viviamo in un modo globale e globalizzato: pensare che Parigi, Milano e Londra siano in competizione è arcaico, fuori dal tempo –, resta una domanda: cosa rende la moda italiana genuinamente unica al mondo? Il made in Italy, la manifattura, la tradizione nell’abilità di saper creare cose incredibilmente belle. La storia, però, a volte diventa un abito che rischia di andare un po’ stretto e bloccarti nei movimenti. La sfida per il sistema italiano credo sia questa: trovare un equilibrio fra la tradizione e i valori e le priorità contemporanee dei consumatori, la sostenibilità, la tecnologia, la visione». •