Il Personaggio quel che resta del punk, di Guido Andruetto
«Tutti mi hanno copiato, ma non hanno nessuna chance»: conversando con JOHN LYDON di Gaultier, Miyake, spille, tartan. E di quanto sono duri a morire certi cliché.
«Il punk continua a essere qualcosa di indefinibile. Ha sempre incarnato un senso di ribellione inafferrabile, era e rimane una cultura di strada. Do it yourself. Il punk era senza paura, perché la maggior parte di noi si sentiva senza speranza. Nessun futuro, niente lavoro, niente di niente». Oggi, a 62 anni, John Lydon ha un futuro ben programmato: «A giugno con la mia band, i PIL, partiremo per il tour inglese, prima tappa l’Electric Ballroom di Londra al Camden Rocks, alcune date sono già sold out. Poi in Giappone e in Italia, a luglio; sarà duro». Al telefono da Los Angeles, Lydon ricorda gli anni 70, quando era Johnny Rotten cantante dei Sex Pistols, senza automitizzazioni. «Pensa alla spilla da balia (uno dei simboli del punk, ndr), la usavo solo perché non potevo cucire i miei vestiti; o il tartan scozzese che ho sempre amato fin da quando i miei me lo fecero indossare per la prima volta».
Le cose però sono cambiate quando i media hanno trasformato il punk in uno stereotipo e tabloid come il “Daily Mirror” hanno iniziato a pubblicare articoli in cui si spiegava come vestirsi per essere punk. «Tutti mi hanno copiato e tanti continuano ancora a farlo», dice, «ma non hanno nessuna chance: il punk cambia da individuo a individuo, non esiste uno stile particolare per definirlo». Sempre fuori dagli schemi, Lydon ha idee precise quando si parla di abbigliamento: «Ho sempre apprezzato Jean Paul Gaultier, ma l’unico che stimo davvero è Issey Miyake, un vero artista, un genio. Ho il guardaroba pieno dei suoi abiti».
Da un tale dadaista, che dall’odiato Malcolm McLaren aveva imparato tutto sul situazionismo più oltraggioso, non ti aspetti che dica: «Gli amici sono l’unica cosa importante. Il mio migliore amico da quando avevo 11 anni è John “Rambo” Stevens, che è anche il mio manager, il mio compagno di viaggio. Nell’industria musicale e discografica avere persone come lui al fianco è fondamentale per un artista. Fiducia e lealtà sono la base. In questo mondo pieno di bugiardi, John mi dice sempre le cose come stanno, mi fido di lui. Sono un uomo libero proprio perché rispetto i miei amici e compagni e non mento mai». Conclusasi nel 1978 l’esperienza dei Sex Pistols, Johnny Rotten ha formato i PIL (Public Image Ltd) con il chitarrista Keith Levene, il batterista Jim Walker e il bassista Jah Wobble: lo spirito dissacrante e iconoclasta della prima band è rimasto intatto, solo è stata aggiunta una spiccata attitudine sperimentale.
Uno dei dischi più rappresentativi della carriera dei PIL è “Album”, del 1986, il cui titolo cambiava a seconda del formato (anche “Compact Disc” e “Cassette”). Tra gli straordinari session men coinvolti provenienti da diversi ambiti, i batteristi Ginger Baker e Tony Williams, il compositore Ryuichi Sakamoto. «Eravamo tutti molto giovani, non avevamo esperienza di prove e incisioni. Quando portai i ragazzi a realizzare il disco a New York erano terrorizzati. Però la reazione fu stupefacente. Registrammo in due giorni, grazie anche ai turnisti, gente di cuore che partecipò con entusiasmo inaspettato. La cosa incredibile è che la casa discografica lo rifiutò, ma non sapevano chi ci aveva lavorato perché non avevo inserito i crediti. Dissero che non era un buon disco e quindi di fatto rifiutarono i migliori musicisti del mondo. È stata la dimostrazione di quello che dico ancora oggi: l’industria discografica segue logiche senza senso e da troppo tempo non facciamo niente per fermare questi meccanismi distorti. Sarebbe ora di dire basta».
Che musica ascolta John Lydon? «Reggae, heavy metal, musica tradizionale greca o turca, canzoni popolari irlandesi. Sento musica tutto il giorno, ma non alla radio, perché è tutto manipolato, non mi piace il sistema». Cosa c’è nel futuro? «Tornare in studio con i PIL: vogliamo registrare tutto il materiale su cui stiamo lavorando». •
Da quando a vent’anni girava per Londra indossando una T-shirt con la scritta “I hate Pink Floyd”, Lydon ha sempre uno stile inimitabile: «Sono un uomo libero proprio perché rispetto i miei amici e compagni. E non mento mai».