le luci e la città,
Storie di New York: una SCRITTRICE che l’ha vissuta nell’età dell’oro, un DESIGNER che, con il suo lavoro, ne rilancia la magia libera e inclusiva.
Pochi momenti della storia recente, per di più di un luogo specifico, hanno perforato l’immaginario collettivo come l’esplosione di eccesso e creatività che ha caratterizzato la vita newyorkese nei primi anni Ottanta. Tutto, o quasi tutto, è nato lì, in una germinazione spontanea e caotica le cui spore arrivano fino a oggi: il mix di cultura alta e di cultura bassa, la deflagrazione dell’underground e la santificazione del downtown, la spettacolarizzazione dell’arte con conseguente trasformazione dell’artista in divo pop, e poi il collasso di ogni elemento in un calderone in cui la moda, frenetica e cannibale, diventa modalità di pensiero e i linguaggi si mescolano, liberi e belli. Il tutto, nello scenario di una metropoli non ancora completamente gentrificata, anzi piena di zone marginali, angoli bui e aree pericolose che diventano territorio di espansione e di conquista. Per questi motivi, e poi per una libertà oggi impensabile, quella New York rimane un mito che si rigenera, ispirando e spronando le generazioni che si succedono.
Uscita dalla bancarotta imminente e incombente, e dalla miseria produttiva degli anni Settanta, la Grande Mela viveva in uno stato di bollore permanente che la rese fucina di progresso e invenzione. Ne conserva vivide memorie Tama Janowitz, la scrittrice che il bestiario cittadino dell’epoca lo distillò nella galleria di personaggi che popola “Schiavi di New York”, la raccolta di brevi racconti che nel 1986 la lanciò verso la fama planetaria. “The Village Voice”, bibbia e termometro di quanto avveniva, la inserì, insieme a Jay McInerney e Bret Easton Ellis, nel “literary brat pack” che mise a ferro e fuoco il mondo editoriale. Oggi Tama Janowitz continua a
scrivere, ma ha scelto la vita defilata nell’upstate New Jersey. New York è troppo diversa da come era per trattenerla. Racconta. «La sensazione meravigliosa di quegli anni era che chiunque potesse essere quello che immaginava di essere. Non c’erano limiti, e il denaro davvero non era un problema, perché si poteva vivere, e non solo sopravvivere, con poco. Passavamo le serate muovendoci da un posto all’altro, con incredibile facilità. In quegli anni ho abitato in zone diverse della città, e tutto avveniva costantemente alla giornata. Il nostro incubo era diventare mainstream, ma avevamo il privilegio di mantenere la nostra condizione marginale di artisti underground. Il mio breakthrough fu una serie di racconti pubblicati su “The New Yorker”, e da lì la mia fama esplose». Come tutti i party, il momento della fine arriva sempre. «Il segnale che le cose stavano cambiando fu la morte di Andy Warhol. Da quel momento nulla è stato più come prima, e Manhattan è diventata un posto da ricchi, dove la vita è possibile solo spendendo moltissimo. Oggi non ci abiterei più».
Pur nella attuale disillusione, Tama Janowitz conserva la memoria di un’epoca effervescente, invero irripetibile, che per chi non la visse direttamente diventa un parnaso ruvido e alternativo cui tendere ad infinitum. È il caso di Stuart Vevers, dal 2013 direttore creativo di Coach, marchio di accessori pragmatici che sotto la sua guida si è trasformato in una casa di moda dall’identità icastica, all American nel melting pot di elementi contrastanti. Per quella stagione mai vissuta, Vevers conserva una fascinazione indelebile che traduce in citazioni d’ogni genere. Racconta. «Amo questa città e la sua energia, e trovo spunti inesauribili nell’underground che nei primi Ottanta ha segnato un momento nodale per la cultura pop: Madonna, Keith Haring, Debbie Harry sono parte del mio moodboard costante di riferimenti». In un recente editoriale su “T Magazine”, Hanya Yanagihara ha messo nero su bianco la sensazione dei neonewyorkesi, sempre convinti di essere giunti in città troppo tardi. Anche Vevers a New York è atterrato a festa finita. «Mi sono trasferito per la prima volta nel 1996. Era un posto differente da quanto avevo letto durante la mia adolescenza nel Nord dell’Inghilterra. Ero insieme vicino e lontano dall’età d’oro: la nostalgia mi ha aiutato a romanticizzare, ma anche a creare una mia fantasia».
Il rivolgimento che Vevers ha messo in atto da Coach, fresco e spontaneo, muove dallo spirito di quegli anni; è libero dagli schemi ma fedele all’inclusività che per Coach è tratto saliente e ineludibile. Keith Haring, in particolare, è un nume tutelare. La scorsa stagione, addirittura, bambini radianti e cani abbaianti si sono moltiplicati su borse e abiti. «L’arte di Haring è immediata, istantanea, parla a tutti. È esattamente questo il risultato che vorrei raggiungere da Coach, perché sono convinto che la moda possa e debba rendere felici». Assunto invero potente, quanto ingenuo, che riporta dritto alla New York del mito, eldorado favoloso nel quale proprio l’ingenuità rendeva tutto speciale. Tama Janowitz ne è convinta. «Si facevano le cose per il gusto di farle, non per il guadagno». Tempi d’oro, che potrebbero ripetersi: New York è la città della rigenerazione che incalza, mai della nostalgia che paralizza. •