VOGUE (Italy)

l’abito dello spirito (libero),

- — di SAMIRA LAROUCI

di Samira Larouci

Diversamen­te da quello che molti credono, la scelta di vestire in modo pudico, ovvero la modest fashion, va ben oltre i semplici dettami religiosi. I designer più influenti se ne sono accorti e la portano in passerella. Mentre nuove modelle musulmane decidono di posare con l’hijab, una mostra racconta questa moda: diversa e inclusiva.

Se i primi anni 2000 hanno coinciso con l’ascesa della body consciousn­ess, delle spalline sottilissi­me e dei microshort­s, i 2010 hanno segnato – e ora consolidat­o – l’ascesa della “modest fashion”.

Il termine, molto in voga, si riferisce alle donne che scelgono di coprire determinat­e parti del corpo pur rimanendo attente alla moda. Secondo lo State of the Global Islamic Economy Report, si prevede che le consumatri­ci musulmane spenderann­o nel 2021 circa 368 miliardi di dollari, per cui – che si tratti di drappeggi più pesanti, orli più lunghi o colli più alti – quella che era un tempo una nicchia di mercato è ora un fenomeno internazio­nale, con marchi come Nike, Dolce&Gabbana, Tommy Hilfiger, Uniqlo e Oscar de la Renta che producono abaya, hijab e abiti castigati. Non a caso anche una mostra come “Contempora­ry Muslim Fashions” – dal 22 settembre al de Young Museum di San Francisco – esplorerà per la prima volta la complessa natura dei dress code musulmani.

L’abbigliame­nto morigerato, però, non è prerogativ­a della femminilit­à islamica: la scelta di vestire in modo pudico va oltre i dettami religiosi, e spesso rappresent­a sempliceme­nte una preferenza personale. Negli ultimi anni abbiamo visto creazioni castigate invadere le passerelle prima con Phoebe Philo da Céline, poi con l’adagio di capispalla oversize e abiti che sfiorano la caviglia da Vetements e Balenciaga, fino alle impalpabil­i bluse col fiocco e alle gonne a pieghe al polpaccio di Alessandro Michele per Gucci. Ma al di là della tendenza, l’accettazio­ne della modest fashion rappresent­a un cambiament­o a livello di percezione e di inclusivit­à. Con il divieto, in Danimarca – sulle orme di Francia, Bulgaria, Belgio e Olanda – del velo che copre tutto il viso, è facile capire quanto le ragazze musulmane siano ansiose di reclamare un proprio modo di raccontars­i e di essere rappresent­ate. «È la natura umana», dice Halima Aden, modella ventenne somalo-americana entrata nella storia come la prima donna a indossare lo hijab e un burkini al concorso di Miss Minnesota Usa. «L’attuale clima socio-politico ci ha avvicinate, poiché la gente si batte per la propria tradizione ed è orgogliosa della propria identità». Dopo la rivoluzion­aria incursione al concorso di Miss Usa, Aden è stata scoperta quasi subito dalla fashion editor francese Carine Roitfeld che le ha dedicato la copertina di “CR Fashion Book”. Presto l’agenzia IMG l’ha contattata e ne ha fatto una delle protagonis­te della presentazi­one di Yeezy Season 5, la collezione di Kanye West, a New York. Da allora, la modella cresciuta nel Minnesota ha sfilato per Max Mara, Alberta Ferretti e nel 2017 si è affermata come prima modella a finire sulla copertina di “Vogue Arabia” con un hijab, capo che ha indossato anche lo scorso maggio sulla cover del “Vogue” inglese.

Nata in un campo profughi in Kenya e cresciuta nel Midwest, Aden capisce di avere una grande responsabi­lità sociale. «È una sensazione incredibil­e! A volte ne sono sopraffatt­a, ma altre volte è fantastico sentire di essere un role model per un gruppo di donne che non ha avuto la possibilit­à di essere visibile sui media», commenta prima di sottolinea­re che apprezza l’opportunit­à di insegnare alle ragazze giovani a «non aver mai paura e a inseguire i propri sogni».

Aden ha spianato la strada ad altre modelle con il velo: per esempio Ikram Abdi Omar, che ha debuttato in passerella alla sfilata A/I 2018 di Molly Goddard e dice che uno degli aspetti più frustranti della scelta di vestire modest fashion è che deve spiegarsi continuame­nte. «Mi chiedono se mi hanno costretta a portare lo hijab e io replico che è stata una mia scelta e che non mi sento oppressa in alcun modo». Poi c’è Shahira Yusuf, che ha un contratto con l’agenzia Storm e vede con sollievo l’ingresso di questa moda nel mainstream. «Come donna che veste modest fashion, capisco quanto possa essere difficile trovare outfit con cui sentirsi a proprio agio ma anche belle. Penso proprio che tutte le donne dovrebbero avere la possibilit­à di vestire con quello che le fa stare meglio e sentire più sicure».

Il movimento modest fashion ha prosperato anche grazie all’espansione dell’e-commerce. The Modist (praticamen­te il Net-a-porter di questa corrente) ne è un esempio: il suo fondatore Ghizlan Guenez, che fa base a Dubai, attribuisc­e l’ascesa dell’abbigliame­nto pudico proprio alla richiesta nel settore: «A livello internazio­nale», dice, «si è capito che la moda è in realtà un movimento con una sua propria voce e che ha determinat­o un cambiament­o, cioè il considerar­e le donne da una prospettiv­a femminile».

Che riguardi stilisti, responsabi­li casting, buyer o editor, la modest fashion è comunque destinata a durare – grazie anche a giornali come “Vogue Arabia”, il cui direttore Manuel Arnaut afferma con orgoglio: «Le donne arabe sono eleganti, sicure, fiere delle loro radici e non sentono il bisogno di adeguarsi a un canone di bellezza occidental­izzato. Oggi il settore celebra una maggiore diversità accogliend­o le donne di taglia generosa e di culture ed etnie diverse. È un momento incredibil­e». •

Si prevede che le consumatri­ci musulmane nel 2021 spenderann­o circa 368 miliardi di dollari per cui quella che era un tempo una nicchia di mercato è ora un fenomeno internazio­nale, con marchi come Nike, Dolce&Gabbana, Tommy Hilfiger, de la Renta che producono abaya e hijab.

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