LO STRAPPO,
A un anno dallo scandalo Weinstein, come è cambiata l’immagine di moda? Una scrittrice lo ha chiesto ai fotografi di Vogue Italia. Per ragionare di giusti limiti, possibili pericolose autolimitazioni e del nuovo, comune senso del pudore visto attraverso la lente del fashion.
«Non sono l’Onu, sono solo un fotografo di moda!». Mert Alas, con Marcus Piggott, creatore d’immagini glamour e carismatiche, e decisamente senza compromessi, commenta così la richiesta che di questi tempi è rivolta alla sua categoria: di essere consapevoli, impegnati, politici. E, forse come conseguenza, sempre più cauti.
A ottobre sarà passato un anno da quando sono state pubblicate le accuse contro Harvey Weinstein. Dopo le campagne MeToo e Time’s Up, anche la moda – che ha avuto la sua dose di molestatori e di coraggiose accusatrici –, come il cinema, l’arte e la politica, è più che mai sotto esame. Un fatto senz’altro positivo, perché le aziende e gli uomini potenti devono essere responsabili delle proprie azioni. Tuttavia la moda si trova in una posizione particolarmente complessa, anche perché non è mai stata così di moda. Componente importantissima della pop culture, è oggi seguita e commentata da milioni di persone. E mentre altri settori possono esprimere il desiderio di cambiare attraverso le parole, la moda viene giudicata essenzialmente in base a quel che si vede. Mai le immagini sono state esaminate tanto minuziosamente come ora, e questa sorta di radiografia sta di fatto definendo il genere di foto che vediamo, dettando tendenze, contenuti e atmosfere.
Per Alas, malgrado le molte conquiste di questi tempi, in fatto di immagini la nostra mentalità è sempre più rigida. Quando lui e Piggott hanno iniziato, intorno alla metà degli anni Novanta, la moda non era l’industria di oggi. All’epoca gli shooting duravano giorni, e spesso erano gestiti da gruppi di amici per testate di nicchia con una mentalità fai-da-te, anticommerciale. Sarebbe stato impossibile immaginare che le fotografie, un giorno, sarebbero state passate al microscopio, o anche digitalizzate, ripubblicate e ripostate da migliaia di persone, e considerate alla stregua di un commento definitivo sulla società, la politica, gli uomini, le donne, la bellezza, la vita. Le immagini oggi sono semplicemente più viste. E i fotografi non sono più ritenuti creatori di immagini, ma portavoce di una serie di valori. «Ci rivolgevamo a un pubblico più stretto», dice Alas. «Data la vastità di quello di oggi, si sente l’urgenza di compiacere tutti. Ma se rimani fedele al tuo punto di vista puoi sempre ottenere un bello scatto».
Anche la fotografia, come la moda, è di moda – è dappertutto. Qualcuno dice che oggi siamo tutti fotografi, visto che postiamo i nostri scatti personali su Instagram. Ogni giorno sulla app ci sono 60 milioni di nuove immagini. E i nostri occhi non sono mai stati così abituati a metabolizzare immagini. Sølve Sundsbø sottolinea quanto l’attenzione per il settore sia cresciuta: «Penso sia molto importante che la fotografia, e la fotografia di moda, siano sotto esame, non credo serva stare sulla difensiva. Ma la cosa interessante è il linguaggio. A scuola si analizzano testi scritti, libri, la geografia, si leggono poesie, ma non si ha quasi mai l’occasione di fare la stessa cosa con le immagini; e se c’è un senso che oggi usiamo più di ogni altro, è proprio la vista, perché consumiamo immagini non stop. La maggior parte di noi, però, non ha modo di capirlo, ci portiamo dietro il vecchio concetto che un’immagine
debba dire la verità, che è la premessa alla base di quasi tutte le discussioni sulla fotografia».
Nel 1977, nel suo libro seminale “Sulla fotografia” (Einaudi), Susan Sontag scriveva: «Una fotografia sembra la prova incontrovertibile che una data cosa è accaduta. La fotografia può essere distorta; ma c’è sempre la presunzione che qualcosa esiste, o esisteva, e somiglia all’oggetto della foto». Molte cose sono cambiate da allora, ma la tesi di Sontag è più valida che mai. Sempre più spesso, oltre ad aspettarci che l’oggetto esista davvero, pretendiamo che la foto di moda mostri soltanto cose che potrebbero esistere – ecco perché critichiamo le immagini che non offrono una visione realistica del corpo, o un casting opportunamente eterogeneo, o una sorta di sensibilità morale in linea con il credo del momento. Questi commenti sono importanti, ma stabiliscono anche linee guida e trucchi che permettono alle aziende di nascondersi: se fai una campagna all’insegna della diversità, dandoti una parvenza di eticità, si spera che nessuno andrà a vedere che cosa c’è dietro, né farà domande sull’età del consiglio di amministrazione, o sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche. «Oggi si pensa che ogni servizio fotografico debba essere rappresentativo in tanti modi diversi, e a volte si è spinti ad anteporre le considerazioni politiche o ideologiche a quelle creative», commenta Alas. «Personalmente, preferisco i casting inclusivi, è il mio punto di vista. Ma se l’eterogeneità viene poco rappresentata, forse abbiamo davvero bisogno di adottare più punti di vista invece di affidarci a scelte di casting simboliche». In un’epoca di fake news, è comprensibile che le persone vogliano credere alle immagini che vedono. Ma, se eliminiamo l’elemento fantastico o stravagante perché lo consideriamo fuori moda o fuori luogo, non è poi facile che il glamour trovi terreno fertile. Forse è meglio così, date l’incertezza e la difficoltà dei tempi in cui viviamo, ma è difficile capire come l’immaginazione possa comunque fiorire e prosperare. Se la macchina fotografica deve solo raccontare la verità, allora è relegata al ruolo di registratore, di strumento per prendere appunti, ignorando le opportunità aperte dai software di ritocco, le app e Photoshop. Strumenti tecnologici che vengono messi da parte perché potenzialmente ingannevoli, malgrado il desiderio dei fotografi di usarli in modo artistico. Lo ha sottolineato Vinoodh Matadin, parlando dei primi esperimenti suoi e di Inez con la manipolazione digitale, in un’intervista per il mio libro sulle coppie creative (“Fashion Together”, Rizzoli 2017): «Era quasi come se finalmente si potesse dipingere. Non abbiamo iniziato a usare il digitale solo per ritoccare le persone nelle fotografie».
In questo clima, ci si è allontanati da quella fotografia di moda che prevede una “messinscena” e dalla rappresentazione visiva di sogni o incubi, e si è adottato un approccio più documentaristico. Si vuole qualcosa di reale, “raw”, e da qui deriva l’attuale moda delle immagini che sembrano naturali, pulite e quasi completamente prive di coreografia: ragazze riprese sul ciglio della strada, o in ambientazioni di vita quotidiana, come se si fossero incontrate per caso. Ma anche la fotografia che sembra reale
è problematica. «La gente credeva alle immagini perché apparivano simili alla realtà, era questa la forza della fotografia di moda, quella che ci faceva credere ai suoi contenuti», spiega Sundsbø. In altre parole, borse e vestiti si vendevano perché le persone pensavano di poter assomigliare alle modelle. «Adesso invece tutti sanno che le immagini non sono vere come pensavano. Così la moda si è spinta verso la realtà, ha cercato insomma di assomigliarle di più. Bisogna capire che oggi la fashion photography non è più reale di un’amazzone di Helmut Newton nel Sud della Francia». Certo, ci sembra realistica l’immagine di una ragazza dall’aria spensierata, fotografata in una città anonima. Ma quella ragazza è comunque una modella, ci sono volute ore per farla sembrare naturale, e art director e location scout avranno passato giorni a cercare il posto giusto per scattare. E i vestiti che indossa costano migliaia di euro.
Come osserva Lucy Moore – dirige la libreria Claire de Rouen di Londra, specializzata in fashion photography e design – , la moda viene consumata per lo più in spazi digitali: le sfilate si guardano in diretta streaming, i vestiti si comprano su siti di e-commerce e i servizi fotografici e le copertine delle riviste si vedono soprattutto su Instagram. Le immagini hanno finito quindi per rispecchiare l’atmosfera improvvisata e intima dello spazio digitale. Detto questo, è forse ironico che la maggior parte delle critiche mosse alla fotografia di moda – è poco rappresentativa, di cattivo gusto, troppo curata – vengano proprio dai social media, dove immagini e selfie sono ritoccati, modificati e ottimizzati. I regolamenti dei social media, inoltre, stanno delineando un nuovo futuro. Il digitale è spesso descritto come uno spazio di democrazia, di libertà senza freni, ma in realtà tutto qui è sottoposto a una rigida censura. «Gli utenti stanno sicuramente diventando più audaci mentre, in generale, le piattaforme sono molto lontane dall’accettare o dall’essere disposte a favorire questo progresso», osservano Stefano Colombini e Alberto Albanese alias Scandebergs, duo che scatta immagini cinematografiche e narrative. «Instagram è soggetto a una rigorosa censura per via del vasto pubblico che raggiunge quotidianamente», spiegano. L’esempio più noto è il divieto ai capezzoli femminili, sicuramente un passo indietro rispetto alla storia della fotografia di moda che, per lungo tempo, ha rotto i tabù sulla nudità. «Inoltre, sempre di più le immagini vengono create per essere facili da leggere, piuttosto che complesse e fruibili per un pubblico ridotto, mentre è importante conservare la complessità del linguaggio visivo di tutti gli artisti».
C’è da chiedersi come se la caverebbero su Instagram alcune delle immagini più provocatorie e cariche di significato politico della storia di Vogue Italia, come per esempio lo shooting di Meisel che esplorava l’ossessione della società per la chirurgia plastica o la violenza sulle donne in quest’epoca di indignazione. I social media permettono un commento istantaneo – un rapido “mi piace” o “non mi piace”, dettato da un piccolo movimento del pollice e da un millesimo di secondo di pensiero. «Anche il minimo errore potrebbe stroncarti la carriera», osserva Sundsbø. Mert Alas dice di non essere condizionato: «La fotografia di moda è una via di fuga, una pausa dalla realtà, un piccolo sogno. Mi sembra che si abbia paura di essere politicamente scorretti, e la paura porta alla moderazione. Molto onestamente detesto la moderazione – sono un eccessivo! – quindi continuo a inseguire quel piccolo sogno e cerco di portarlo nella nostra fotografia».
Allora, che cosa ci riserva il futuro? Il gusto per il “reale” sparirà? Il glamour patinato tornerà a sembrare giusto? E la moda sarà mai capace di gestire il sesso? Il dibattito è aperto. «Ho sentito dei maschi del settore moda dire che hanno “paura” di fare un lavoro sessuale. Ma spero che non duri. Gli esseri umani devono essere sessuali», sottolinea ancora Lucy Moore. Sølve Sundsbø ha constatato che gli editor rifuggono le immagini sensuali, persino in un caso in cui il soggetto femminile di un ritratto aveva scelto personalmente il proprio vestito, che casualmente era semitrasparente. Strada facendo, qualcuno sembra aver dimenticato che MeToo non voleva dire che il sesso è qualcosa di negativo, ma che lo è lo sfruttamento. Di sicuro, la risposta non è attribuire alle donne fotografe il compito di trovare uno stile fotografico del tutto nuovo. È di moda parlare di “sguardo femminile”, ormai quasi un’estetica o un tropo di per sé, con il suo contorno di limitazioni e tropi riconoscibili. «È importante non cadere in quella facile trappola», commenta la fotografa Julia Hetta. «La cosa fondamentale è che sentiamo veramente di credere in quell’immagine».
In fin dei conti, la diversità che pretendiamo di vedere nelle fotografie dovrebbe rispecchiarsi nei fotografi stessi e nello stile delle immagini che guardiamo, che dovrebbero essere sorprendenti, inattese, ambiziose e – obiettivo più irraggiungibile – nuove. Sundsbø rimane ottimista: «Tutti sperano che la prossima cosa che faranno sia la migliore che abbiano mai fatto. Devo credere che la mia prossima foto sarà quanto meno più bella di quella che ho fatto ieri, non bisogna perdere quella speranza».• *Scrittrice, giornalista e presentatrice, è stata editor della piattaforma di moda SHOWstudio, lavorando con Nick Knight. Collabora con il Financial Times. Recentemente ha curato North: Fashioning Identity, una mostra che racconta la rappresentazione visuale del nord inglese, alla Somerset House di Londra. Il suo primo libro è Fashion Together, un’esplorazione delle collaborazioni nella moda (Rizzoli, 2017).
In un’epoca di fake news è comprensibile che la gente voglia credere alle immagini, e che anche la fotografia di moda venga giudicata per la sua adesione alla realtà naturale. Ma se eliminiamo
il sogno, l’eccesso e lo stravagante, è difficile che il glamour trovi terreno fertile per prosperare.