UN ATTRAVERSATORE DI CONFINI,
«Non sono adatto a nessun ruolo», dice OLIVIER SAILLARD. Ma con la levità del colto amateur ha diretto musei, ideato mostre (la prossima a Milano). E ora cambia il volto a una storica griffe.
Da che il patrimonio di follower, fittizio alquanto e discutibile – ma, impone la vulgata, inestimabile –, ha sostituito il talento, e da quando la capacità di ipnotizzare le masse ha superato il desiderio di percorrere vette impervie ma più alte e libere di sapere, il professionismo è un po’ caduto in disgrazia a favor di populismo. La nostra è, a uno sguardo di massima, epoca di improvvisati – pigri, conformisti e strapagati. Eppure c’è chi da amateur si impegna a stimolare senso e progresso, muovendosi liquido tra discipline, intersecando linguaggi e contravvenendo solide convenzioni per dilettare e far pensare. Olivier Saillard è personaggio liminale sotto ogni aspetto: un attraversatore svagato e lirico di confini. Con le mostre che ha curato per il Palais Galliera – il museo parigino della moda che ha diretto fino alla fine del 2017 –, ma anche alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti – piccole gemme come le esposizioni su Balenciaga e Madame Grès, o il toccante “Museo Effimero della Moda” – e poi attraverso happening, performance e libri, Saillard ha creato un repertorio di segni e azioni emozionale e sorprendente, che ruota intorno alla moda, entità polimorfa e magnetica che riassume e condensa aspetti eterni dell’animo umano. A volerlo incastrare a forza dentro una definizione, Saillard è un curatore. Ma è anche un regista e un designer sui generis. Da gennaio 2018 ricopre il ruolo di “direttore artistico, immagine e cultura” per J.M. Weston, istituzione francese di solido classicismo, maison le cui scarpe rappresentano dal 1891 un’idea di bello e utile che attraversa generazioni e classi sociali. «Ufficialmente non sono adatto a nessuno dei ruoli che ricopro: guardo le cose che mi piacciono da fuori, e questo mi aiuta a trovare
angolazioni mie per raccontarle», spiega. Appena cinquantunenne, ha una formazione da storico dell’arte. «Il tratto che unisce tutte le mie attività è la ricerca di poesia». Lo incontriamo a Parigi, il giorno dopo la performance di Mathilde Monnier “Défilé pour 27 chaussures”, avvio ufficiale delle sue attività per Weston insieme al lancio della campagna pubblicitaria, fotografata – o sarebbe meglio dire acquisita su un gigantesco scanner – dall’artista Katerina Jebb, protagonista Laetitia Casta. Saillard però non si occupa solo di comunicazione. Il suo lavoro è radicato nel prodotto. «Weston è una maison storica che continua a produrre i propri modelli, come i mocassini, da decenni, immutati. Il repertorio è vasto, e mi offre ampio spazio d’azione, perché posso giocare con gli archetipi, mescolarli, ritoccarli», racconta.
Quando a gennaio fu dato l’annuncio della nomina, in molti si sorpresero, non ultimi i modaioli aperti a tutto. Se di designer che aspirano al ruolo di curatori è piena la scena, infatti, di curatori che scendono dal podio accademico per sporcarsi le mani con creazione e commercio praticamente non ne esistono, ancora di più se il ruolo prevede la Cultura, bestia nera che terrorizza il fashion system, sempre più convinto che il sapere sia mera succursale del marketing. Saillard rifiuta le categorizzazioni, ma a cotanta consapevolezza è giunto dopo un attento percorso di riflessione. «Thierry Oriez, presidente di Weston, mi ha contattato per la prima volta tre anni fa, proponendomi questo ruolo dopo aver visitato le mie mostre e aver assistito alle performance che ho diretto e ideato. La mia prima risposta è stata negativa: non mi ritenevo adatto perché sprovvisto del necessario bagaglio tecnico, ma anche perché dentro di me pensavo, da borghese, a quanto fosse importante dirigere una istituzione pubblica come il Galliera. Ho detto di no anche al secondo incontro. Poi, lentamente, ho cambiato idea, perché ho immaginato di poter trasformare Weston in una officina di oggetti, prodotti e azioni culturali. I limiti del mio professionismo nel fare le scarpe mettono tutto in prospettiva». Il disegno è certamente ambizioso, ma alla base di tutto Saillard mantiene leggerezza di tratto e levità di approccio. «La cultura è un magnifico veicolo per espandere l’identità e le attività di una maison», spiega. «Penso però che tutto vada fatto senza retorica, e in questo senso ho dalla mia la proprietà di Weston, che da sempre è estremamente discreta. Nella moda oggi si parla molto di cultura, ma è a ben guardare un parlarsi addosso per ragioni pubblicitarie. In molti se lo sono chiesto, per esempio: non è affatto mia intenzione creare una grande esposizione su Weston. Quel che mi interessa al contrario è trasformare Weston in una piccola istituzione che produca libri, performance o mostre, che sostenga i talenti e le arti. Anche le boutique saranno organizzate come mostre o atelier d’artista. L’idea è che il pubblico possa entrare e guardare, come in un museo. Certo, a differenza del museo tutto avrà un prezzo, ma non voglio che l’intera esperienza sia finalizzata all’acquisto». Il disegno di Saillard, fin qui, è chiaro: ha traslato la propria pratica di curatore trasversale dentro Weston. Dalla performance a Katerina Jebb si riconoscono tutti gli stilemi della sua personalissima grammatica. Manca forse l’effetto sorpresa per chi lo ha seguito dagli esordi, ma ben dispone la naturalezza priva di forzature con cui Weston ha già allargato lo spettro delle proprie attività.
Nel mentre, Saillard continua a sperimentare in altri ambiti, peripatetico dell’intrattenimento che fa pensare. «Da che sono con Weston, non ho più paura della creazione», dice. Nei giorni della couture, a Parigi, ha presentato “Moda Povera”, una collezione di banali T-shirt XXL acquistate online e poi drappeggiate o riconfigurate con l’aiuto di una sarta che lavorò con Madame Grès. A Milano, nel corso della fashion week, curerà una mostra dedicata ad Azzedine Alaïa (dal 20 al 25/9 a Palazzo Clerici, v. pag.216) e molto altro è in cantiere. «Nella mia carriera ho avuto il privilegio di collaborare con i grandi, da Yohji Yamamoto ad Alber Elbaz», conclude. «La mia idea di moda è alta, e voglio che così rimanga. Credo nella creazione, non nel profitto». •