Tutto cambia, tutto torna,
CAROLINA CASTIGLIONI ha fatto tesoro dell’esperienza maturata con la madre per lanciare il brand Plan C: il suo progetto a dimensione umana costruito su un equilibrio di contrappunti.
Plan C, come «Piano Carolina» o «Piano Castiglioni», dice. Così Carolina Castiglioni – primogenita di Consuelo Castiglioni, direttore dei progetti speciali in Marni fino al momento in cui la famiglia è uscita dal gruppo – introduce il marchio che ha debuttato davanti a un selezionato gruppo di buyer a giugno. Senza indugio s’è innescato il passaparola. «Segno che chi è arrivato con un’aspettativa ha trovato nel progetto un’identità, pur all’interno di una familiarità di base». Nello showroom soffuso di grigi sfumati, arredato con mobili mid-century – negli anni 60 era il laboratorio di pellicceria della bisnonna – racconta della «estetica elegante e sofisticata» di Plan C, costruita su un equilibrio di contrappunti, di silhouette oversize e mood metropolitano, elementi maschili e accenti sfacciatamente femminili, di una freschezza imprevista. Al suo fianco Carolina ha il padre, Gianni, amministratore delegato, e il fratello Giovanni, direttore operativo. Family business as usual, quando però ogni cosa è cambiata.
Ha un ossimoro per descrivere la sua collezione? Elegante ma con estro artistico; semplice e particolare allo stesso tempo.
A quale donna si rivolge?
Ogni pezzo che ho disegnato potrebbe finire nel mio armadio. Detto ciò, celebra una donna anticonformista e indipendente, che non si lascia influenzare dalle tendenze e sceglie capi da indossare stagione dopo stagione. Veste per sé, rifiuta un’idea stereotipata di ciò che è sexy. In quale posto le piacerebbe incontrare una donna che indossa i suoi capi?
Un tempo avrei detto in una galleria d’arte, ma sarei ben più felice d’incontrarla per strada; senza sovrastrutture. Qual è il suo processo creativo?
Gli spunti possono venire da luoghi inattesi. La regola è non fermarsi alla definizione ovvia. La collezione vive di contrasti: il sundress iper-femminile è infilato sopra la camicia dal sapore maschile, la felpa fa da contraltare agli shorts di paillettes.
Era implicito che avreste ricominciato?
Discussioni ce ne sono state tante. Ma su una cosa eravamo d’accordo: non volevamo dissipare una ricchezza fatta di esperienze maturate e rapporti di fiducia.
Sua madre, ritirandosi, disse: «È arrivato il momento di dedicarmi alla vita privata». Nessun ripensamento? Non avrebbe voluto ricominciare da capo e non tornerà. Cosa le ha insegnato?
Il metodo, che ho imparato osservandola, e un generale atteggiamento verso la moda. Da bambina sapevo che il suo modo di vestire non era quello delle altre madri, ma era la mia normalità; il gusto che ho interiorizzato nasce da un vissuto di cui sono raramente consapevole. Ci capita di andare a fare acquisti nello stesso posto, in momenti diversi, e scoprire che abbiamo comprato le stesse cose. Teme i paragoni?
Plan C non è Marni. Niente è come prima. Sono io sola a disegnare, allora c’era un ufficio stile. Vogliamo produrre solo due collezioni l’anno. Tutto è a dimensione umana, con ritmi impensabili per il brand Marni di oggi. Considera la moda un destino?
Sono cresciuta nei laboratori dove lavoravano i miei. Di pomeriggio confezionavo le buste con la ceralacca. Per un po’ ho pensato di studiare arte e ho fatto i test d’ingresso all’università, a Londra. Mi hanno ammesso, ma ho capito che non volevo lasciare Milano, così mi sono iscritta a un corso di Fashion Business alla Marangoni. Iniziare a lavorare con la mia famiglia è stato fisiologico.
Quanti anni aveva quando Marni venne lanciato? Tredici. A ventitré sono entrata in azienda.
L’impresa di famiglia è una tradizione nell’industria della moda italiana. Svantaggi?
Francamente non ne vedo.
Cosa sono i vestiti per lei?
Una gioia, rendono entusiasmante il quotidiano.
Il consiglio che ha fatto suo.
Mio padre mi ripeteva sempre: «Devi usare il tuo cervello». Ho imparato, con il tempo, a seguire l’istinto: ha sempre ragione. •