ERAVAMO PIRATI
I pantaloni stretti di quel giovane calabrese, il logo per uno sconosciuto futuro re del fashion, una collezione uomo che non c’era, le prime modelle... Flavio Lucchini, art director e mente creativa di Vogue Italia, ha lanciato il prêt-à-porter italiano nel mondo. In queste pagine racconta come tutto è cominciato, mentre Milano festeggia i suoi 90 anni con mostre, installazioni e un documentario.
Nella casa di Flavio Lucchini c’è una foto di Oliviero Toscani immortalato mentre inquadra Andy Warhol, che a sua volta solleva la Polaroid e risponde al flash con un altro flash: Lucchini che dirige la scena, pantaloni eleganti, Converse (di pelle) ai piedi, nella Factory di New York, anno 1969. «Andy stampava serigrafie a ciclo continuo, e mi disse una cosa che mi colpì: “Good business is the best form of art”». Oliviero indossava un gilet Missoni, nel tipico patchwork di consistenze e colori, un particolare in apparenza secondario in cui c’è però un frammento di storia della moda italiana: «Negli anni 60 Missoni realizzava solo la collezione donna», dice Lucchini nella sua dimora milanese, ieri ricoperta di moquette nera a pelo lungo ispirata alle installazioni di Pino Pascali, ora punteggiata di opere di Alighiero Boetti, arredi di Ettore Sottsass, foto di Diane Arbus e opere da lui stesso create negli ultimi vent’anni. Una casa acquistata nel 1971 e divisa con Gisella Borioli, compagna di vita e di lavoro, che se lo ritrovò davanti a una lezione all’Accademia di Brera e, ancora ragazzina, si disse: ecco l’uomo della vita, per conquistarlo mi renderò indispensabile, poi mi farò amare, quindi lo sposerò. Un sodalizio che alla fine degli anni 80, quando da tempo avevano lasciato l’universo Vogue per fondare con Rusconi la Edimoda, lo portò a rifiutare l’incarico che in cuor suo aveva sempre sognato: «Alla morte di Franco Sartori (direttore di Vogue Italia e amministratore delegato, ndr.) mi proposero di divenire ad di Condé Nast, ma le direttrici di allora posero una condizione irricevibile: lasciar fuori Gisella dalla nuova avventura. Ricordo la telefonata di Daniel Salem, allora capo delle operazioni del gruppo: “Mais Flavio, Vogue c’est Vogue!”. Al che gli risposi: “Oui Daniel, mais la famille est la famille”».
Si diceva di quel patchwork, e del suo significato per la moda italiana: «Per la cover de “L’Uomo Vogue” che avevo da poco fondato, decisi di fotografare l’attore Lino Capolicchio, e per creare un look screpolato, da rivoluzionario anni 70, mi feci spedire da Missoni alcuni pezzi di stoffa del campionario, le cosiddette tirelle. Usando delle spille da balia, montai i frammenti intorno al collo di Lino in modo che sembrassero un maglione, e andai in edicola. Fu tale il successo di quella cover che Missoni si trovò costretto a creare la collezione maschile».
Flavio Lucchini non solo ha contribuito a fondare Vogue Italia, nel 1965, portandolo in pochi anni a imporsi come l’edizione più importante dopo quella americana e staccando per influenza e fatturato quelle inglesi e francesi. Ma per una serie di intuizioni simili e secondo l’opinione di molti, si può considerare un padre fondatore del Made in Italy. O almeno della sua trasformazione in movimento, percezione condivisa e rispettata all’estero, sistema, battaglia comune.
Un direttore artistico che attraverso le pagine della rivista che ha guidato fino al 1979 a fianco di Sartori ha convinto stilisti e industriali ad abbracciare estetiche e modelli, indirizzato le scelte commerciali, lanciato i giovani del prêtàporter che albeggiava a Milano, e modernizzato l’approccio dei sarti dell’alta moda romana che s’accontentavano di realizzare pochi costosissimi abiti per le nobildonne lasciando che il resto d’Italia ne copiasse il lavoro grazie ai cartamodelli. Incontrava i cravattai e li convinceva ad abbandonare regimental e motivetti geometrici per sostituirli con disegni pop e fluo: «Persino utilizzare l’immagine di Mao Tse Tung come stampa fu un’idea mia e di Vogue Italia». Insieme all’allora direttore commerciale di Condé Nast Attilio Fontanesi andava dai tessutai per portarli a finanziare i groupage, editoriali di trenta pagine in cui si mostrava il lavoro dei sarti: Valentino, Balestra, Capucci, Galitzine. E poi Krizia, Armani, Walter Albini, Ken Scott. Il sistema dei pubbliredazionali, volano per l’industria italiana e per le casse della rivista, era nato. «Grazie ai groupage ingaggiai fotografi altrimenti irraggiungibili come Irving Penn e Richard Avedon, mentre scartai Bruce Weber che non mi piaceva. Sulla scia della visibilità creata da Vogue Italia, i nostri couturier più bravi divennero famosi come quelli francesi. E d’un tratto la nostra moda non era più di serie B».
Ecco perché oggi, a novant’anni appena compiuti, Milano dedica a Lucchini le celebrazioni che merita: “Ghost”, un’installazione di quattro sculture da lui realizzate, sarà visibile per tutto novembre nel giardino del Palazzo della Triennale. Al Superstudio Più di via Forcella, fondato insieme al fotografo Fabrizio Ferri, fino al 31/12 sono esposti novanta pezzi tra opere d’arte, cover, foto e documenti, per narrare una storia che va dalla creazione di “Amica”, nel 1962, alla nascita del gruppo Edimoda fondato dopo la fine dell’avventura a Vogue, alla scelta degli ultimi anni di dedicarsi solo all’arte. Inoltre, la possibilità di visitare, su appuntamento, il suo archivio privato nell’Undergallery del Superstudio Più, dove dal 16 al 18/11 sarà proiettato “La moda in un altro modo”, documentario curato da Gisella Borioli e diretto da Giovanni Gastel. Una costellazione di antologie che forse non riusciranno neppure a esaurirne il contributo: «Eravamo pirati», racconta Lucchini, nella divisa nera vagamente sovietica che ultimamente caratterizza il suo stile, «partivamo con un camioncino pieno di vestiti e fotografavamo gli studenti in rivolta, i ragazzi delle periferie, le modelle come Alberta Tiburzi e Benedetta Barzini, quando a Milano non c’erano neppure le agenzie». Le redattrici moda venivano selezionate senza giri di conoscenze, pubblicando inserzioni sul “Corriere della Sera”: «Cercavo laureate in lettere o architettura e conducevo colloqui strani, chiedevo di descrivermi cosa appendessero alle pareti di casa e che libri stessero leggendo. Anche Franca Sozzani fu scovata così: sembrava volenterosa e la prendemmo prima per la segreteria, e poi la passai a Gisella come sua assistente a “Vogue Bambini,” anche se lei non la voleva: diceva che le sembrava una signorina troppo perbene. Poi pian piano ha assorbito tutto, e il virus della moda l’ha posseduta».
Ricorda una festa nella sede di piazza Castello, con le prime luci stroboscopiche portate da New York da Mario Schifano. Poi una missione in Costa Azzurra a caccia di Pablo Picasso, respinti con fermezza dalla giovane compagna del maestro, Jacqueline Roque: «Ci disse che non stava bene e ci mandò via, ma indomiti ci venne il colpo di genio: a Nizza viveva Michele Sapone, il suo sarto, che ci tirò fuori un album di fotografie che ritraevano Picasso in mutande, in tight, vestito alla marinara, nudo. Saltammo sulla sedia e fotografammo tutti i faldoni, e pubblicammo il servizio su “L’Uomo Vogue”». Poi Yves Saint Laurent, convinto a posare con indosso tutta la sua prima collezione maschile. O i pantaloni senza piega e stretti alla caviglia che un giovane Gianni Versace, figlio di una sarta di Reggio Calabria, gli portò un giorno in redazione: «Tutti li indossavano a zampa, ma noi li pubblicammo lo stesso, creando sconcerto tra fabbricanti e negozianti».
La storia più incredibile riguarda Giorgio Armani, conosciuto mentre lavorava per il Lanificio Fratelli Cerruti. «Quando il suo rapporto con l’azienda andò in crisi venne da me per un consiglio, e io gli dissi che era venuto il momento di mettersi in proprio», ricorda Lucchini che gli propone sei pagine di pubblicità su Vogue Italia annunciando l’imminente collezione, offerte a credito come investimento del giornale, irremovibile di fronte alle incertezze del futuro Re Giorgio: “Ma Flavio, non ho neanche un marchio!”. «Seduta stante, con il Bodoni originale usato per la testata di Vogue, gli composi il logo Giorgio Armani. Lo stesso che usa ancora oggi». •
«Partivamo con un camioncino pieno di vestiti e fotografavamo gli studenti in rivolta, i ragazzi delle periferie, le modelle come Alberta Tiburzi e Benedetta Barzini, quando a Milano non c’erano neppure le agenzie. E l e redattrici erano scelte con inserzioni sul “Corriere”».