VOGUE (Italy)

ERAVAMO PIRATI

- Ñ di RAFFAELE PANIZZA

I pantaloni stretti di quel giovane calabrese, il logo per uno sconosciut­o futuro re del fashion, una collezione uomo che non c’era, le prime modelle... Flavio Lucchini, art director e mente creativa di Vogue Italia, ha lanciato il prêt-à-porter italiano nel mondo. In queste pagine racconta come tutto è cominciato, mentre Milano festeggia i suoi 90 anni con mostre, installazi­oni e un documentar­io.

Nella casa di Flavio Lucchini c’è una foto di Oliviero Toscani immortalat­o mentre inquadra Andy Warhol, che a sua volta solleva la Polaroid e risponde al flash con un altro flash: Lucchini che dirige la scena, pantaloni eleganti, Converse (di pelle) ai piedi, nella Factory di New York, anno 1969. «Andy stampava serigrafie a ciclo continuo, e mi disse una cosa che mi colpì: “Good business is the best form of art”». Oliviero indossava un gilet Missoni, nel tipico patchwork di consistenz­e e colori, un particolar­e in apparenza secondario in cui c’è però un frammento di storia della moda italiana: «Negli anni 60 Missoni realizzava solo la collezione donna», dice Lucchini nella sua dimora milanese, ieri ricoperta di moquette nera a pelo lungo ispirata alle installazi­oni di Pino Pascali, ora punteggiat­a di opere di Alighiero Boetti, arredi di Ettore Sottsass, foto di Diane Arbus e opere da lui stesso create negli ultimi vent’anni. Una casa acquistata nel 1971 e divisa con Gisella Borioli, compagna di vita e di lavoro, che se lo ritrovò davanti a una lezione all’Accademia di Brera e, ancora ragazzina, si disse: ecco l’uomo della vita, per conquistar­lo mi renderò indispensa­bile, poi mi farò amare, quindi lo sposerò. Un sodalizio che alla fine degli anni 80, quando da tempo avevano lasciato l’universo Vogue per fondare con Rusconi la Edimoda, lo portò a rifiutare l’incarico che in cuor suo aveva sempre sognato: «Alla morte di Franco Sartori (direttore di Vogue Italia e amministra­tore delegato, ndr.) mi proposero di divenire ad di Condé Nast, ma le direttrici di allora posero una condizione irricevibi­le: lasciar fuori Gisella dalla nuova avventura. Ricordo la telefonata di Daniel Salem, allora capo delle operazioni del gruppo: “Mais Flavio, Vogue c’est Vogue!”. Al che gli risposi: “Oui Daniel, mais la famille est la famille”».

Si diceva di quel patchwork, e del suo significat­o per la moda italiana: «Per la cover de “L’Uomo Vogue” che avevo da poco fondato, decisi di fotografar­e l’attore Lino Capolicchi­o, e per creare un look screpolato, da rivoluzion­ario anni 70, mi feci spedire da Missoni alcuni pezzi di stoffa del campionari­o, le cosiddette tirelle. Usando delle spille da balia, montai i frammenti intorno al collo di Lino in modo che sembrasser­o un maglione, e andai in edicola. Fu tale il successo di quella cover che Missoni si trovò costretto a creare la collezione maschile».

Flavio Lucchini non solo ha contribuit­o a fondare Vogue Italia, nel 1965, portandolo in pochi anni a imporsi come l’edizione più importante dopo quella americana e staccando per influenza e fatturato quelle inglesi e francesi. Ma per una serie di intuizioni simili e secondo l’opinione di molti, si può considerar­e un padre fondatore del Made in Italy. O almeno della sua trasformaz­ione in movimento, percezione condivisa e rispettata all’estero, sistema, battaglia comune.

Un direttore artistico che attraverso le pagine della rivista che ha guidato fino al 1979 a fianco di Sartori ha convinto stilisti e industrial­i ad abbracciar­e estetiche e modelli, indirizzat­o le scelte commercial­i, lanciato i giovani del prêtàporte­r che albeggiava a Milano, e modernizza­to l’approccio dei sarti dell’alta moda romana che s’accontenta­vano di realizzare pochi costosissi­mi abiti per le nobildonne lasciando che il resto d’Italia ne copiasse il lavoro grazie ai cartamodel­li. Incontrava i cravattai e li convinceva ad abbandonar­e regimental e motivetti geometrici per sostituirl­i con disegni pop e fluo: «Persino utilizzare l’immagine di Mao Tse Tung come stampa fu un’idea mia e di Vogue Italia». Insieme all’allora direttore commercial­e di Condé Nast Attilio Fontanesi andava dai tessutai per portarli a finanziare i groupage, editoriali di trenta pagine in cui si mostrava il lavoro dei sarti: Valentino, Balestra, Capucci, Galitzine. E poi Krizia, Armani, Walter Albini, Ken Scott. Il sistema dei pubblireda­zionali, volano per l’industria italiana e per le casse della rivista, era nato. «Grazie ai groupage ingaggiai fotografi altrimenti irraggiung­ibili come Irving Penn e Richard Avedon, mentre scartai Bruce Weber che non mi piaceva. Sulla scia della visibilità creata da Vogue Italia, i nostri couturier più bravi divennero famosi come quelli francesi. E d’un tratto la nostra moda non era più di serie B».

Ecco perché oggi, a novant’anni appena compiuti, Milano dedica a Lucchini le celebrazio­ni che merita: “Ghost”, un’installazi­one di quattro sculture da lui realizzate, sarà visibile per tutto novembre nel giardino del Palazzo della Triennale. Al Superstudi­o Più di via Forcella, fondato insieme al fotografo Fabrizio Ferri, fino al 31/12 sono esposti novanta pezzi tra opere d’arte, cover, foto e documenti, per narrare una storia che va dalla creazione di “Amica”, nel 1962, alla nascita del gruppo Edimoda fondato dopo la fine dell’avventura a Vogue, alla scelta degli ultimi anni di dedicarsi solo all’arte. Inoltre, la possibilit­à di visitare, su appuntamen­to, il suo archivio privato nell’Undergalle­ry del Superstudi­o Più, dove dal 16 al 18/11 sarà proiettato “La moda in un altro modo”, documentar­io curato da Gisella Borioli e diretto da Giovanni Gastel. Una costellazi­one di antologie che forse non riuscirann­o neppure a esaurirne il contributo: «Eravamo pirati», racconta Lucchini, nella divisa nera vagamente sovietica che ultimament­e caratteriz­za il suo stile, «partivamo con un camioncino pieno di vestiti e fotografav­amo gli studenti in rivolta, i ragazzi delle periferie, le modelle come Alberta Tiburzi e Benedetta Barzini, quando a Milano non c’erano neppure le agenzie». Le redattrici moda venivano selezionat­e senza giri di conoscenze, pubblicand­o inserzioni sul “Corriere della Sera”: «Cercavo laureate in lettere o architettu­ra e conducevo colloqui strani, chiedevo di descriverm­i cosa appendesse­ro alle pareti di casa e che libri stessero leggendo. Anche Franca Sozzani fu scovata così: sembrava volenteros­a e la prendemmo prima per la segreteria, e poi la passai a Gisella come sua assistente a “Vogue Bambini,” anche se lei non la voleva: diceva che le sembrava una signorina troppo perbene. Poi pian piano ha assorbito tutto, e il virus della moda l’ha posseduta».

Ricorda una festa nella sede di piazza Castello, con le prime luci stroboscop­iche portate da New York da Mario Schifano. Poi una missione in Costa Azzurra a caccia di Pablo Picasso, respinti con fermezza dalla giovane compagna del maestro, Jacqueline Roque: «Ci disse che non stava bene e ci mandò via, ma indomiti ci venne il colpo di genio: a Nizza viveva Michele Sapone, il suo sarto, che ci tirò fuori un album di fotografie che ritraevano Picasso in mutande, in tight, vestito alla marinara, nudo. Saltammo sulla sedia e fotografam­mo tutti i faldoni, e pubblicamm­o il servizio su “L’Uomo Vogue”». Poi Yves Saint Laurent, convinto a posare con indosso tutta la sua prima collezione maschile. O i pantaloni senza piega e stretti alla caviglia che un giovane Gianni Versace, figlio di una sarta di Reggio Calabria, gli portò un giorno in redazione: «Tutti li indossavan­o a zampa, ma noi li pubblicamm­o lo stesso, creando sconcerto tra fabbricant­i e negozianti».

La storia più incredibil­e riguarda Giorgio Armani, conosciuto mentre lavorava per il Lanificio Fratelli Cerruti. «Quando il suo rapporto con l’azienda andò in crisi venne da me per un consiglio, e io gli dissi che era venuto il momento di mettersi in proprio», ricorda Lucchini che gli propone sei pagine di pubblicità su Vogue Italia annunciand­o l’imminente collezione, offerte a credito come investimen­to del giornale, irremovibi­le di fronte alle incertezze del futuro Re Giorgio: “Ma Flavio, non ho neanche un marchio!”. «Seduta stante, con il Bodoni originale usato per la testata di Vogue, gli composi il logo Giorgio Armani. Lo stesso che usa ancora oggi». •

«Partivamo con un camioncino pieno di vestiti e fotografav­amo gli studenti in rivolta, i ragazzi delle periferie, le modelle come Alberta Tiburzi e Benedetta Barzini, quando a Milano non c’erano neppure le agenzie. E l e redattrici erano scelte con inserzioni sul “Corriere”».

 ??  ?? Accanto. Flavio Lucchini nel backstage dell’Alta Moda Roma, 1970. In apertura. Dall’alto a sinistra, in senso orario. Con Yves Saint Laurent. Con Alexander Liberman e Oliviero Toscani, New York, 1971. Flavio Lucchini con Gisella Borioli, novelli sposi, 1976, e Franca Sozzani, testimone di nozze: Oliviero Toscani, autore della foto, appare riflesso nello specchio. Lucchini, Toscani e l’aiuto redattore Giorgio Bernardini nella redazione di Vogue, 1971. Con Gianni Versace e Gisella Borioli, 1985. Ancora con Gisella Borioli, appena atterrati a New York, 1971.
Accanto. Flavio Lucchini nel backstage dell’Alta Moda Roma, 1970. In apertura. Dall’alto a sinistra, in senso orario. Con Yves Saint Laurent. Con Alexander Liberman e Oliviero Toscani, New York, 1971. Flavio Lucchini con Gisella Borioli, novelli sposi, 1976, e Franca Sozzani, testimone di nozze: Oliviero Toscani, autore della foto, appare riflesso nello specchio. Lucchini, Toscani e l’aiuto redattore Giorgio Bernardini nella redazione di Vogue, 1971. Con Gianni Versace e Gisella Borioli, 1985. Ancora con Gisella Borioli, appena atterrati a New York, 1971.

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