La Factory per la nostra strada, di Samira Larouci
Si chiamano Twombly, Schachter, Greiss: nomi importanti nel mondo delle gallerie. Condividono casa e una sfida: dimostrare di non essere (soltanto) FIGLI D’ARTE.
In un periodo in cui molti artisti stanno abbandonando New York in favore di spazi di lavoro più economici a Città del Messico e nel Nord dello Stato di New York – e c’è ancora chi piange la morte della scena artistica del Lower East Side –, si potrebbe fare l’errore di pensare che la Grande Mela abbia perso il suo smalto. Invece proprio nel cuore della Bowery, un gruppo di artisti e curatori, figli d’arte, sta sperimentando nuove strade. Condividendo gli spazi di una grande casa-studio – comune, sì, ma che lascia a ciascuno il proprio spazio – a due passi dal New Museum, il curatore Caio Twombly, il fotografo Rafik Greiss e gli artisti Kai e Adrian Schachter hanno dato vita a un fluido incubatore creativo: uno spazio in cui abitano, passano il tempo, fanno festa, dipingono, discutono del proprio lavoro. «Siamo come i diversi rami di uno stesso albero», dice il ventiduenne Adrian Schachter, che condivide lo spazio con il fratello minore Kai. Figli del mercante d’arte, curatore e artista Kenny Schachter e dell’artista diventata poi fashion designer Ilona Rich, sono cresciuti in una casa in cui non esistevano pareti bianche: ogni muro, compreso quello della nursery, era ricoperto dalle opere d’arte della collezione dei genitori, e i litigi erano incentrati sui pezzi che il padre avrebbe voluto vendere. «Una volta Kai ha fatto una scenata quando mio padre ha venduto un quadro di Dan Colen fatto con escrementi d’uccello, che era stato nella sua stanza per anni», ricorda Adrian.
Il suo lavoro – che interviene sull’artificialità di supporti
plastici con pastelli umidi e strati di colore acrilico spessi anche 15 centimetri che sembrano sculture – è giocoso ma complesso. Mentre quello di Kai è sperimentale nell’affiancare pigmenti e pastelli con strati di pittura a olio per raffigurare – in modo astratto, o più letterale – omaggi alla pubblicità, alla clip-art e alla segnografia. «Mi sento ispirato quando sono immerso nella natura e posso osservare la bellezza e le forme create da madre terra», dice Kai, «ma trovo anche stimoli negli annunci pubblicitari sui bidoni della spazzatura e nelle immagini pop e colorate appiccicate di fianco a una qualsiasi bodega di New York».
Avendo vissuto tutti in modo intermittente tra Londra e New York, ai membri del collettivo viene spontaneo fare il paragone tra le due più importanti capitali dell’arte contemporanea. «La scena artistica a Londra è molto più elitaria», dice il fotografo ventenne Rafik Greiss, «New York è molto più aperta e attraente per i giovani emergenti». Cresciuto in Egitto durante la rivoluzione, una madre artista, Rafik racconta come la turbolenta atmosfera politica sia stata determinante nella scelta di usare la fotografia. «Quando era impegnata in uno dei suoi progetti, mia madre mi trascinava con sé in contesti disagiati come gli ospedali psichiatrici, e quando è scoppiata la rivolta mi ha portato fuori a fotografare le strade invase dai gas lacrimogeni, dove venivano sparati colpi di pistola», racconta. In quel momento ha davvero capito il potere della fotografia: «Per la prima volta sono stato spinto fuori dalla mia comfort zone, e questa mentalità continua a ispirarmi nel lavoro». L’avere ereditato, tutti, la conoscenza del mondo dell’arte di intere generazioni, non fa che aumentare la loro motivazione. Come sottolinea Kai, «le persone entrano in galleria determinate a odiare il mio lavoro, pensando che le opere sono esposte lì solo per via di mio padre. Questo finisce per diventare un ottimo stimolo per dimostrare che faccio sul serio».
In tre anni di vita insieme, i quattro hanno fatto sei mostre collettive a New York e una a Londra, tutte curate da Caio. «Essendo così giovane, è difficile che io possa essere esperto in qualcosa», scherza il curatore ventiduenne, nipote di Cy Twombly e Tatiana Franchetti. Nonostante la discendenza, l’arte non l’ha affascinato da subito. Ripensando alla sua infanzia a Roma, ricorda quando una volta, giocando a calcio, ruppe la cornice di un piccolo lavoro di Yves Klein. «Mio padre non la prese troppo bene», e poi aggiunge: «Paradossalmente ho cominciato a interessarmi davvero all’arte dopo aver lasciato il nido domestico, quando non mi circondava più». Smanioso di usare la sua conoscenza, i suoi contatti per entrare in relazione con artisti emergenti e presentarli al pubblico, Caio ha curato collettive – molte includono anche Kai, Adrian e Rafik – che hanno riunito le opere di emergenti ma anche di già affermati come Oprah Shemesh, Lily Gavin e Luca Grottoli. E a proposito del collettivo, dice: «A casa nostra, ognuno è motivato in tempi diversi: battere la fiacca non è quindi un’opzione possibile. Ci stimoliamo l’uno con l’altro, in una sana forma di competizione. Stiamo imparando a capire l’arte tutti insieme, e uno dall’altro». •