La Storia anche mia, l’africa, di Walter Siti
Produrre il film premio Oscar tratto dal libro di Karen Blixen era la sua ossessione. Perché? ANNA CATALDI lo racconta a un amico scrittore. E in un memoir in uscita.
Anna Cataldi mi viene incontro avvicinandomi il viso bello e infragilito dagli anni; siamo amici da un po’, ho letto il suo libro quando era ancora manoscritto ammirandone l’aria poco italiana, la sobrietà da “never complain”. Ci sediamo sul divano mentre il bassotto Blu scodinzola e mi festeggia.
Il tuo libro, pubblicato ora da Rizzoli con il titolo “La coda della sirena”, è un memoir che parla di come sei riuscita a ottenere che si facesse un film a partire da “La mia Africa” di Karen Blixen e dalle biografie scritte su di lei. Le memorie ti affascinano più dei romanzi di invenzione? Certamente, in me c’è un desiderio di investigare, mi ha sempre emozionato frugare nelle vite altrui, cercare coincidenze… la mia passione è Lytton Strachey… è come una caccia al tesoro, entri in una grotta e scopri, scopri, è straordinario.
Si parla spesso dell’effetto terapeutico delle scritture di memoria, vale anche per te?
Fare l’indagatrice, come dicevo, per me è una terapia purché non indaghi su di me, anzi ( una pausa, un sorriso doloroso e infantile) io ho una sofferenza a parlare di me… questo libro l’ho voluto scrivere soprattutto per lasciare qualcosa alle mie figlie e ai miei nipoti, per ridare loro un pezzetto della vita di quand’erano ragazzi, e ho potuto farlo perché tenevo i diari… il libro serve a riparare qualcosa che non c’è più, soprattutto perché allora Giovanni ( il figlio maggiore, morto a 28 anni in un incidente subacqueo) era ancora vivo…
La Anna del libro sembra ossessionata da questo “film da farsi”; da che cosa derivava questa spinta così forte? Da che stavi fuggendo?
Ero ingenua, sprovveduta… prima di questo, a parte i miei figli, non avevo combinato niente di significativo… riuscire a produrre il film era un modo per dire “ce l’ho fatta”, di qualunque impresa si fosse trattato. Hai trovato nella vicenda della Blixen qualcosa che ti somigliava?
Sì ( esita), forse una caduta, un disastro… ero in un momento molto difficile della mia vita ( si riferisce a Giorgio Falk, il primo marito a cui accenna nel libro: «Ho divorziato e tutto è rimasto a lui, è riuscito a portarmi via anche due figli» ) e mi sono identificata con la Blixen quando racconta nelle lettere di avere perso tutto… l’ho letta come una storia di resistenza.
Che rapporti avevi fino a quel momento con il mondo del cinema?
Zero. Badavo ai divi, al regista… è stata Audrey (Hepburn, ndr) a dirmi «devi vedere anche chi ha fatto le scene, i costumi, la sceneggiatura, la musica, sono cose molto importanti»… da allora ho cominciato ad andare al cinema da sola come se facessi i compiti, mi segnavo tutto… Eri amica della Hepburn, di Zeffirelli, con Polanski sciavi a Gstaad… questa rete di amicizie non ti ha aiutato? Zeffirelli voleva trascinarmi nel suo “Gesù” come Maria Maddalena, farmi camminare a piedi nudi con una brocca in testa… ma nell’impegno del film le amicizie mondane invece che aiutarmi mi hanno piuttosto ostacolato, mi prendevano per una “social butterfly” e mi dicevano «noi facciamo un lavoro serio, non ti immischiare», ho ricevuto tante umiliazioni.
Tra le persone incontrate nei sette anni di tentativi, chi ricordi con più piacere?
Charles Pick, il direttore della casa editrice Heinemann, uno dei pochi che mi ha preso sul serio… e poi Errol Trzebinski ( autrice di “Silence Will Speak”, storia dell’amore tra la Blixen e Denys Finch Hutton) che ora vive sull’isola di Lamu… con lei siamo rimaste molto amiche, è venuta a trovarmi in Toscana… e Stephen Grimes, l’art director che abitava a Trastevere.
Quanta è stata la gioia quando “La mia Africa”, con quel cast stellare e gli Oscar, è finalmente uscito?
È stata un po’ rovinata dalle malattie: non ho potuto andare a Hollywood per la prima e stavo alla clinica Mangiagalli quando il film è stato presentato alla regina Elisabetta… non ho potuto nemmeno avvisare ed è sembrato che snobbassi la regina.
Sei più tornata in Kenya?
Non è più lo stesso… il Norfolk Hotel, che era charmosissimo, quando l’ho visto l’ultima volta tra tutti i grattacieli mi sembrava un Pizza Hut californiano. Sono andata nel 1992 per passare da lì in Somalia dove c’era Audrey, poi è cambiato tutto. Se non avessi fatto la follia di voler realizzare questo film, la mia vita sarebbe stata diversa.
Con l’understatement che le è solito allude al successivo impegno umanitario, che dalla Somalia l’ha portata a Sarajevo, poi in Cecenia, poi a diventare messaggera di pace per le Nazioni Unite e giornalista per molte testate italiane e straniere; ma ci aspetta una zuppa di pollo al curry e latte di cocco, e l’intervista è finita. •
*Scrittore, 71 anni, ha appena pubblicato il romanzo Bontà (Einaudi).