Foreword/2 il look più cliccato della stagione, di Hilary Alexander
L’idea che “la moda sia una giungla” non è mai stata più vicina alla verità. L’animalier dilaga come un’epidemia che si diffonde alla velocità della luce, un’invasione di macchie e strisce. Il 26 ottobre scorso, Alexandra Van Houtte di Tagwalk scriveva sul “Financial Times” che la stampa animalier, nonostante fosse presente in solo duecento look su ben quarantotto sfilate, è stata una delle keywords più cercate di tutta la P/E 2019. L’immagine più cliccata di tutto il fashion circus tra New York, Londra, Milano e Parigi è il look numero 12 di Riccardo Tisci al suo debutto per Burberry: Adut Akech in top, gonna e scarpe a stampa animalier (foto a fianco).
Una settimana dopo ero alla fashion week di Tbilisi, la capitale georgiana, e mi sono trovata immersa in un serraglio. Una muta di oltre settanta giornalisti, stilisti, blogger, e buyer di trenta paesi, il cui linguaggio comune era la stampa animalier. Gonne e cappotti leopardati, shorts e calze ghepardati, foulard e pantaloni zebrati, colli di pelliccia sintetica e cappucci pelosi come la più orgogliosa criniera leonina. Un vero trionfo di “glam growl-orama”, ovvero di ruggiti glam. Tornata a Londra, il primo comunicato stampa che pesco riportava la notizia che un abito di Whistles – il già esauritissimo Jungle Cat indossato a novembre da Sarah Jessica Parker per la première newyorchese del suo film “Here and Now” – sarebbe presto tornato in produzione. Subito dopo ricevo il bollettino del The Berkeley hotel che annuncia il suo celebre Prêt-à-Portea pomeridiano ispirato alla moda con la riproduzione in forma di bavarese al cioccolato e menta del completo color lime leopardato e paillettato dell’A/I 2018-19 di Tom Ford.
L’animal-mania rasenta l’ossessione? O è semplicemente un piacere a lungo custodito, da sempre annidato nell’ombra, e riportato ora sotto i riflettori dai designer? Le stampe leopardate e zebrate di Tom Ford, con le variazioni sul tema offerte da Victoria Beckham e Carolina Herrera, si sono inserite nel solco dell’omaggio fatto da Donatella Versace al fratello Gianni la scorsa stagione, quando tutte le “supermodels” hanno sfilato con una delle stampe preferite dallo stilista scomparso. L’animalier, poi, difficilmente manca nelle collezioni di Roberto Cavalli o di Dolce&Gabbana, che cercano le loro prede sugli stessi terreni di caccia esplorati e sfruttati nel nome della moda dall’inizio dei tempi. La bellezza del manto del leopardo ha catturato l’attenzione di uomini e donne dall’età della pietra fino a quella digitale, o da Fred Flintstone a Tom Ford. Nell’antico Egitto le donne disegnavano macchie di leopardo sulle tuniche di cotone, anticipando di duemila anni o più designer come Jean-Charles Worth negli anni Venti, e Christian Dior nel 1947. Dai faraoni alle pop star, dai militari all’industria musicale, da Hollywood all’alta società, dalle famiglie reali al r’n’r, il fascino del leopardo è intatto.
«Perché ci piace indossare tessuti leopardati?», chiede Donatella Versace nella prefazione al mio libro, “Leopard - Fashion’s Most Powerful Print” (Laurence King, 2018). «Perché ci sentiamo più vicini a qualcosa di così bello da togliere il fiato, pieno di grazia, molto prezioso… e anche un po’ pericoloso». •
*Giornalista inglese, classe 1946, è stata fashion director del Daily Telegraph. Nel 1997 e nel 2003 è stata nominata Giornalista dell’anno ai British Fashion Awards. È editor-at-large del mensile Hello!