la legge della strada, di David Michon
Da sempre ispiratore della controcultura, lo streetwear è dilagato nell’immaginario mainstream. I brand del lusso lo hanno metabolizzato, i social media ne diffondono verbo (e business). Il critico si chiede: forse il suo tempo è già finito?
A ogni nuova stagione, e a ogni sneaker che calca le passerelle della moda, l’influenza e la rilevanza dello streetwear sembra farsi più evidente. Sono le sue tendenze a guidare il mercato e a conquistare i più prestigiosi premi del settore, spesso a discapito dell’establishment del lusso, che a sua volta si muove per recuperare terreno affidandosi a un nuovo ibrido tra couture e street style. Insomma: la strada, da sempre ispirazione per le contro-culture, ha ormai invaso l’immaginario mainstream, come racconta anche la mostra al Maxxi di Roma (“La strada. Dove si crea il mondo”, 7/12-28/4/19), in cui si esplora, attraverso varie installazioni, la vita urbana quale luogo di condivisione e innovazione, laboratorio per artisti, architetti, designer. Si dirà: non è certo una novità. In tutta la storia della moda la strada è stata infatti frequente fonte di ispirazione, da Paul Poiret nei primi del Novecento fino ad Anna Sui negli anni Novanta e molti altri ancora. Ma ciò che è cambiato è che «oggi le persone che indossano lo streetwear sono gli “attori” del movimento», spiega Jenke-Ahmed Tailly, designer e direttore creativo di origine ivoriana e senegalese, che veste tra le altre Kim Kardashian e Beyoncé. In altri termini: siamo abituati a vedere i riferimenti della strada reinterpretati per la moda di lusso e la couture, ma quello che sta accadendo oggi sembra diverso: si tratta di una fusione. Nuovi talenti stilistici emergono proprio dalla scena della controcultura, dalle periferie più aspre, dai centri urbani più difficili. E i loro marchi coniugano una grande attenzione per l’abbigliamento concettuale, per l’artigianalità e i materiali couture con concessioni a comfort e accessibilità dello stile.
Il designer di maggior spicco – il re filosofo di questo cambiamento – è senza dubbio Virgil Abloh (38 anni) di Off-White, oggi anche direttore artistico del menswear di Louis Vuitton, candidato quest’anno dal CFDA (Council of Fashion Designers of America) a Designer
of the Year per l’abbigliamento uomo e donna. Ma anche altri marchi come Vetements, Koché, Gypsy Sport, Marine Serre o Alyx sfumano i confini tra la strada e la passerella. Christelle Kocher (40 anni), la forza creativa alla base di Koché, arriva da un quartiere periferico di Parigi dove lo sport era, se non l’unico, quanto meno uno dei principali passatempi: «Sono cresciuta in una casa popolare; lo sport era ovunque… per i bambini del quartiere, [l’abbigliamento sportivo] era l’unico modo di vestire. I miei marchi erano Adidas, Nike». In seguito, cominciando a esplorare la moda, li ha mixati con capi di lusso di marchi come Chanel o Bottega Veneta, “nobilitando” lo sportswear con tagli, decorazioni e stampe couture, ma senza metterne mai in discussione la validità.
I momenti in cui lo street style ha messo radici in passerella sono stati spesso collegati a un’esplosione di mobilità sociale, percepita o reale; un cedimento dei regni del potere culturale. Oggi quel cambiamento di potere è in gran parte dovuto ai social media, e i giovani stilisti, che ne conoscono il linguaggio, li usano per trovare un pubblico in ogni parte del mondo, in modo rapido e relativamente poco costoso. «Penso che i social abbiano gettato un ponte tra high e low, tra la passerella e la strada», commenta Rio Uribe (32 anni), di Gypsy Sport. «Per la prima volta, abbiamo visto persone su Instagram indossare capi di Rick Owens con sneakers Adidas, e i confini hanno cominciato a sfumarsi. Mi piace perché è una sfida al classismo della moda». Uribe è anche un fan dello street casting, cioè dei modelli non professionisti presi dalla strada, o fuori dal solito circuito. Nelle sue campagne sono infatti comparsi personaggi come la drag queen Nina Bo’Nina Brown, e la modella e attivista transessuale Munroe Bergdorf. Nel 2017, Gypsy Sport si è esplicitamente legato alla cultura street, allestendo una sfilata in Place de la République a Parigi, in mezzo ai passanti. Niente di più lontano insomma dalla sacra navata del Grand Palais.
«I marchi sono più vicini al consumatore», spiega Tailly, «e per continuare a cogliere l’air du temps devono adattarsi». Il che vuol dire parlare a un nuovo pubblico conquistato grazie allo streetwear e galvanizzato da questo movimento. E qui il mezzo di comunicazione ha definito il prodotto: il punto di contatto per lo stile non sono più soltanto i classici servizi fotografici, ma anche il finto casual dei selfie, o l’evoluzione della street photography.
Lavori come il progetto “Preston Bus Station”, pubblicato in queste pagine, che ha definitivamente consacrato il suo autore Jamie Hawkesworth come voce di una generazione nella fotografia di moda, dimostrano al di là di ogni dubbio che il fashion è meno fantasia, meno élite, e più pubblico. Ciò che è stato incubato da una manciata di famosi blog di street style, come Style Bubble di Susie Lau (35 anni), o nel lavoro di videogiornalisti
come Tommy Ton (34 anni), è letteralmente esploso con il boom di Instagram e con la facilità con cui ognuno di noi può condividere e consumare immagini.
I grandi marchi hanno fatto il possibile per stare al passo. Nel 2017, Versace ha nominato Head of Sneaker Design Salehe Bembury (31 anni): l’anno prima lo stilista lavorava non in un altro marchio tradizionale del lusso ma da Yeezy (creato da Kanye West), e non vive a Milano ma a Los Angeles. Nello stesso anno, Kim Jones (39 anni) ha orchestrato una collaborazione – considerata uno spartiacque nel settore – tra Louis Vuitton e Supreme, sovrano incontrastato dello streetwear, applicando il logo tipografico bianco e rosso di Supreme accanto alla LV di Vuitton sulle borse in pelle, sulle salopette e persino su uno skateboard. E per la P/E 2019 non si contano i brand tradizionali che hanno mandato in passerella look ispirati allo streetwear: si pensi ai marsupi da Fendi e alle onnipresenti sneaker (Louis Vuitton, Versace, Escada solo per citarne alcuni).
Se l’interpretazione dei big brands è spesso giocosamente femminile, graziosa e apolitica, aggiungendo un tocco d’informalità a capi preziosi, quella dei marchi indipendenti è più carica di significato, audace e schierata. Può essere facile intuire i possibili fallimenti. Attraverso i tessuti o altri segnali, i player tradizionali stanno cercando di capitalizzare l’attualità, ma non sempre lo fanno in modo sofisticato. Dando un’occhiata a ciò che arriverà, si possono già notare infatti ulteriori cambiamenti: ad esempio l’aggiunta dell’ingrediente “high performance” in quei brand, come Byborre, che si avvalgono di un linguaggio “innovativo” anziché di quello dell’empowerment (vale a dire lo streetwear come iconografia dei meno fortunati). Per la P/E19, il tessuto predominante di Byborre era il Gore-Tex, e persino Off-White, il marchio di Abloh, ha collaborato con Gore-Tex nel 2018.
Altri, come Tailly, puntano sul fatto che non avverrà un cambiamento di stile in sé, ma l’attenzione si sposterà lontano da Milano, Londra e New York per volgersi verso Lagos. «La “black beauty” non è una tendenza passeggera» dice. Per lui marchi africani come Laduma, Chu Suwannapha e Lisa Folawiyo hanno un grande futuro; è naturale attendersi che nelle stagioni a venire colossi del lusso osservino con attenzione la Lagos Fashion Week.
Se lo strapotere dello streetwear non è oggi in discussione, lo è quindi piuttosto il suo destino: perché quando i grandi brand si impadroniscono di una tendenza, di solito la liquidano rapidamente. Dunque, proprio mentre sempre più marchi si ispirano allo street style o ne sono pervasi, dobbiamo anche chiederci: il loro tempo è già finito? Lo stesso Virgil Abloh, designer con un fiuto straordinario per il mercato, ha definito il termine streetwear una “trappola”: la sua parola chiave è rilevanza, che è da sempre la forza motrice della moda. •
Dando un’occhiata a ciò che arriverà, si possono già notare dei cambiamenti: ad esempio l’aggiunta dell’ingrediente “high performance” nei brand che si avvalgono di un linguaggio innovativo. Altri scommettono che la “black beauty” non è tendenza passeggera, e cambierà la geografia della moda.