senza confini, di Mattia Gaballo,
Alice Merton, Snoh Aalegra, Rosalía: tre storie di nuove MIGRAZIONI MUSICALI.
Ci sono storie che partono da lontano. Lo riesci a intuire in un testo, in un viso. O in certa musica di oggi: brani orecchiabili, pop, ma con qualcosa di più profondo, come un’eco da altri luoghi, altri tempi, che amplia la loro cassa di risonanza in maniera insolita. Il valore aggiunto, a conti fatti, è la biografia “migrante” di chi li ha prodotti – oppure la deliberata scelta di contaminare le culture. Di aprirsi. E venire incontro a una generazione che non distingue
più i generi, la provenienza, la lingua, ma ama la musica in quanto linguaggio universale, commistione e migrazione sonora. In due parole: codice interculturale. È il caso delle tre ragazze ritratte in queste pagine.
La prima: Alice Merton. Madre tedesca e padre irlandese, cresciuta in Ontario, Connecticut, New York, Monaco di Baviera, Bournemouth, Londra, Berlino, la venticinquenne ha raggiunto la popolarità nel 2017 grazie a un brano, “No Roots”, in cui dichiarava di non avere un luogo in cui identificarsi nel mondo. La canzone è contenuta nel suo primo album, “Mint”, che esce questo mese: un mix di pop-punk e funk molto personale. Tant’è che, dopo i tantissimi rifiuti ricevuti da varie case discografiche, Alice l’ha prodotto da sola aprendo una propria etichetta.
«Queste canzoni, che ho scritto negli ultimi tre anni, testimoniano la mia crescita professionale e personale», racconta. «Sono storie legate alle amicizie perdute e ritrovate, al mio aspetto di imprenditrice, alla vicenda di una donna che non si è data per vinta e ha costruito una carriera». Anche grazie alla sua biografia nomade, l’artista è convinta che la cultura possa aiutare i popoli ad avvicinarsi. «Mi sono sempre chiesta cosa significasse “sentirsi a casa”. Per me è il luogo dove c’è la musica e ci sono gli amici», continua Alice. «Senza cultura il mondo sarebbe triste, la cultura aiuta a connettere e la musica lo può fare ancora di più».
Un’altra artista “migrante” è Snoh Aalegra, nome d’arte balzato alle cronache dopo che la sua canzone “Nothing Burns Like the Cold” è stata utilizzata per il lancio globale del nuovo iPhone lo scorso settembre. «La mia famiglia è stata costretta a lasciare l’Iran durante la rivoluzione islamica», racconta Snoh Nowrozi, classe 1987. «Siamo andati in Svezia, dove a nove anni ho iniziato a cantare, ispirata da voci leggendarie come Whitney Houston e Mariah Carey». E in “Feels”, un album che
si sta facendo conoscere ora, la voce di Snoh ha davvero un’intensità pari a quella delle cantanti soul afroamericane, ed è molto difficile ricondurla a quella di una ragazza svedese di origini persiane. «Ogni giorno qui a Los Angeles, dove vivo ora, mi chiedono delle mie origini», continua Snoh. «Conservo le mie tradizioni meticce, soprattutto in casa dove ci sono molti elementi di cultura iraniana, una cultura che si sposa benissimo con il minimalismo svedese. Qualche mese fa poi ho fatto da testimonial per una campagna pubblicitaria indossando un turbante tipico persiano».
La tradizione reinventata è la chiave del successo di un’altra cantautrice allergica alle etichette, Rosalía. Reduce da due Latin Grammy Awards conquistati a Las Vegas con un singolo, “Malamente”, che ha stregato tutti grazie a un mélange musicale senza precedenti tra flamenco e hiphop, la venticinquenne catalana ha le idee molto chiare. E con il suo concept album pubblicato a novembre, “El Mal Querer” (in italiano, “Amore tossico”), rivela in pie- no la sua anima culturalmente ibrida. «Mi piace comunicare, viaggiare, condividere e ho concepito questo album come un messaggio universale, una visione», racconta Rosalía che ha conquistato anche artisti come Pharrell Williams, Khalid, Romeo Santos. E Pedro Almodóvar, che ha fatto debuttare la cantautrice nel suo nuovo film “Dolor y gloria” al fianco di Penélope Cruz. «La musica porta in sé un messaggio che non dipende dalle parole ma dai suoni, e per produrre quest’album ho sperimentato in libertà per tanto tempo. Il flamenco è la mia ispirazione e l’ho interpretato in modo personale, pensando a un progetto che mantenesse elementi tradizionali ma arricchiti da ritmica hip-hop, tastiere e campionamenti. Ho sempre cercato di trovare qualcosa di nuovo. Anzi, di nuovo non c’è nulla nella musica. Direi forse qualcosa di originale». La migrazione, insomma, è una questione di suoni per lei, che nei video veicola un’immagine potentemente femminista. «La mia è la storia di una donna che, alla fine, esce vincente. Io mi sento così». •