L’Anniversario/1 il tempo non esiste, di Alberto Calabrese
Una carriera lunga vent’anni, durante i quali ANTONIO MARRAS ha portato in passerella cultura popolare e oggetti dimenticati. E ora manda in scena una pièce che racconta le ombre del cuore.
Quando si chiede ad Antonio Marras di fare un resoconto dei suoi vent’anni di carriera, lo si trova sinceramente spiazzato: «Non ho cognizione del tempo, dei mesi, dei giorni», dice. Ma è pur vero che il suo lavoro, sempre connesso con l’arte, è carico di storie, come ricorda la collezione A/I 2017-18 ispirata a Eva Mameli, prima docente di botanica in Italia e madre di Calvino, celebrata con tessuti damascati e i famosi pizzi dai decori floreali del designer algherese. Ed è anche un lavoro di recupero – come la linea Laboratorio (2001), creata a Ittiri, in Sardegna, da sarte ricamatrici che riassemblano frammenti della tradizione –, che svela «l’anima da rigattiere». Marras, uomo nobile e gentile, si schermisce: «Mi sembra di aver fatto poco e niente», dice, sebbene di recente sia diventato anche regista teatrale dello spettacolo “Mio cuore io sto soffrendo. Cosa posso fare per te?”. Un «atto di incoscienza» lo definisce, in cui racconta la paura del cuore, che decide, nostro malgrado, dei nostri destini. E dove sperimenta, come nella moda, la sua grammatica creativa trasversale, fatta di opposti: locale/globale, ricco/povero, civilizzato/primitivo, e innesta la contaminazione tra arti visive. La sua è una vita all’insegna dell’emozione, come quella che lo riporta a Roma, nel 1996, al ricordo della prima sfilata, «di alta moda, perché faccio sempre le cose al contrario». O al 1997, all’abito di alta moda “Fili Lai Lai” , dedicato alla sua musa, l’artista sarda Maria Lai, colei che «mi ha traghettato nell’arte e ha fatto sì che non mi vergognassi delle mie opere». La carriera di Marras è ispirata a donne forti e fatta di condivisioni, prima di tutto con Patrizia, la moglie, «sempre fianco a fianco in un rapporto pieno di contrasti, ma anche di ascolto e confronto». E si è svolta in questo ventennio in piena autenticità: fil rouge, il “laccetto rosso”, finitura dei capi ma soprattutto «legame con il luogo d’origine che ne sigilla l’appartenenza». •