L’Intervista due vite una svolta, di Francesca Molteni, foto di Alessandro Furchino Capria
Tutto serve ad ALICE PEDROLETTI per creare nuovi mondi: la sua prima passione per la fotografia custodita in un archivio, la scultura, lavorare su isole deserte.
Ci sono la passione per la ricerca e l’ossessione dell’archivio, la geografia e la memoria, la matrice e gli oggetti nelle opere di Alice Pedroletti, artista che mette in relazione fotografia e scultura per creare nuovi mondi, nuove domande. Sembra più giovane dei suoi 40 anni, Alice. Comincia ritraendo musicisti, concerti, sale prova. Crea Alike, factory di grafici e fotografi, lavora nel design e nella pubblicità. Poi, la svolta: decide di fermarsi e ricominciare. Una seconda vita, che non esclude nessun linguaggio, ma si concentra sul senso della pratica artistica.
Cos’è cambiato e come è nata la sua prima personale? Mi mancavano lo studio, l’arte, la ricerca – in realtà ne facevo molta, ma per gli altri, avevo cominciato a 20 anni a lavorare, senza fermarmi mai. Poi è arrivato il progetto “Frigido. Vita di un archivio”, la prima personale ai Frigoriferi Milanesi nel 2013: la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Era un lavoro che, partendo dal mio archivio fotografico analogico, doveva trasformarsi, come mi dovevo trasformare io, come stava cambiando la fotografia. Una catarsi: spesso le artiste usano l’archivio in relazione a una ricerca più esistenziale, al senso della propria vita. In questo percorso di ricerca e di libertà dalla committenza, quanto hanno contato le residenze d’artista?
Le residenze sono utili per conoscere i territori dove fare ricerca, per ricavarsi uno spazio dove essere solo se stessi, e avere un sostegno economico per farlo. La residenza a
«Non amo l’autoriferimento nell’immagine contemporanea, soprattutto femminile. Per questo cercavo un corpo che non fosse il mio su cui lavorare. Così ho pensato che... ».
Rabbit Island, appena conclusa, è stata un cambio di vita. Il sito è sul Lake Superior e non è mai stato abitato. Qui la filosofia è non lasciare tracce sull’isola, dove per un mese vivi e lavori al tuo progetto. Il programma è legato alla relazione uomo-ambiente, alle future possibilità per le generazioni a venire.
Il tema dell’isola c’è anche nell’installazione “Go with the Flow”, all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles. Tra le mie tematiche più personali ci sono l’acqua e quanto ha a che fare con il galleggiamento. Il progetto è nato da una residenza sull’Isola Comacina. Non amo l’autoriferimento nell’immagine contemporanea, soprattutto femminile. Per questo cercavo un corpo che non fosse il mio cui lavorare, e l’isola lo è: oscilla come una clessidra, lo spazio-tempo è variabile, non c’è sopra né sotto. E l’acqua la divide dalla terraferma.
Parliamo di “Study for a Sculpture (Prototypes for An Organic City)”.
Il progetto di queste sessanta sculture di carte colorate è nato nel 2016 in Cina, dove mi aveva colpito l’uso del colore nei costumi tradizionali e nel teatro. Ognuna rappresenta un organismo, una pianta, un simbolo. Insieme ricreano una città che muovo a piacere, perché per me i palazzi sono grandi oggetti che non posso maneggiare. Per restare ferme nel tempo, le mie architetture di carta, che mutano se spostate, hanno bisogno di una fotografia che ne sia matrice e ne determini la forma perfetta. Parla di colori e veste di nero. Ciò che indossa è un linguaggio che ha una relazione con il suo lavoro?
Il vestito deve vivere con me ciò che sto facendo, per cui scelgo abiti che, prima di tutto, mi facciano stare bene. Mi piace essere, come si dice, un foglio bianco: il mio è nero, neutro, un colore con cui si può fare qualsiasi cosa. Quando presento un’opera o inauguro una mostra, voglio essere bella almeno quanto il lavoro che propongo. Deve esserci in qualche modo un equilibrio. E poi sono un po’ scaramantica: di solito compro una cosa nuova e difficilmente la indosso una seconda volta.•