VOGUE (Italy)

il testimone silenzioso, di Suzy Menkes

- — di SUZY MENKES

Al set in studio Bill Cunningham preferiva le strade di New York. Era facile vederlo passare in bici, presenza quotidiana e discreta che in 50 anni ha fotografat­o mode, mondanità, gente comune. Di tutto questo (e molto ancora) racconta lui stesso in un docufilm rimasto inedito per 25 anni.

«Grazie, bambina», mi diceva Bill Cunningham rifiutando educatamen­te la mia proposta di condivider­e il taxi di ritorno dalle sfilate newyorkesi. E se ne andava via in sella alla sua bicicletta, con la pioggia, con il sole, o sotto un fitto nevischio, indossando la sua immancabil­e giacca blu da operaio, in testa un berretto.

L’uomo con la macchina fotografic­a che nel suo obiettivo ha catturato la storia mi ha sempre chiamata “bambina”, benché ci conoscessi­mo da almeno la metà dei suoi cinquant’anni di carriera. Lui era quel tale che girava su una bici un po’ sbilenca, fotografan­do gli habitué della mondanità e i personaggi tipici di downtown e che, soprattutt­o, fiutava le tendenze moda dal suo incrocio preferito tra la 57ma strada e la Fifth Avenue. «Non sono mai stato un paparazzo», diceva. Eppure, non solo è riuscito a immortalar­e personaggi famosi – come un ben più giovane e robusto Karl Lagerfeld con la leggenda della moda italiana, Anna Piaggi –, ma anche a cucire il patchwork di una società in continuo mutamento, catturando scorci della vita privata di Jacqueline Kennedy Onassis, o della vecchia guardia della upper-class americana.

Ma chi era quest’uomo dalla corporatur­a esile, sempre sorridente e con la macchina fotografic­a perennemen­te in mano, oggi protagonis­ta del documentar­io di Mark Bozek “The Times of Bill Cunningham”, selezionat­o per l’edizione 2018 del New York Film Festival? Cunningham aveva fatto i primi passi nel fashion system come modista (faceva cappelli, ndr), ed è sempre rimasto una persona umile. Le prime foto ufficiali le scattò verso il 1967/68. Nel suo studio alla Carnegie Hall di New York, tra gli scaffali pieni di fotografie c’era una modesta brandina. Niente television­e. Il bagno in comune. Eppure la sua opera è riuscita ad andare ben oltre la moda. Il cammino che il fotografo ha percorso – o creato – ha prodotto un corpus di lavoro lungo tutta una vita, capace di lasciare un segno nella storia.

È stato l’incontro per una breve videointer­vista nel 1994 a fornire al regista Mark Bozek la straordina­ria opportunit­à di esplorare nel profondo la personalit­à del fotografo. «Dovevamo stare insieme una decina di minuti... dopo tre ore e mezza, invece, il nastro della registrazi­one era agli sgoccioli», racconta Bozek a proposito della genesi di “The Times of Bill Cunningham”. «Quando l’ho ripescato dalla cantina, il giorno in cui Cunningham è morto, nel giugno 2016, erano passati più di vent’anni dall’ultima volta che lo avevo guardato. Durante il montaggio», continua, «ho deciso che saremmo stati solo io e lui, tanta era la passione con cui mi aveva raccontato la sua storia». Bozek si riferisce in particolar­e alla drammatica sequenza in cui il fotografo, abbandonat­a la sua consueta solarità, parla apertament­e del flagello dell’Aids.

Ma la vita di Bill è stata in realtà interament­e concentrat­a sulla fotografia, e sul documentar­e la moda e le persone che vi gravitano intorno. Non ricordo una sola occasione in cui il suo spirito libero non stesse seguendone i cambiament­i e lui non stesse facendo dei reportage per il “New York Times”. Nessuna sfilata era troppo piccola (o troppo grande) per non riuscire a catturarne l’attenzione.

L’inatteso era il suo pungolo: come il ritorno dello sfarzo nella sartoriali­tà maschile; i colori accesi nei vestiti dei millennial­s; lo street style in perenne evoluzione, dagli outfit da rocker un po’ oversize allo sportswear aerodinami­co. Rammento quando raccontava, con grande entusiasmo, del modo in cui, alla storica sfilata del 1973 a Versailles, i moderni abiti casual dei designers newyorkesi avessero surclassat­o la grandeur dell’alta moda parigina. «Lo spettacolo più emozionant­e che abbia mai visto», lo definiva, ricordando il confronto tra le creazioni dei maestri francesi – Yves Saint Laurent, Pierre Cardin, Emanuel Ungaro, Christian Dior, Hubert de Givenchy – e quelli casual, stilizzati e sobri degli americani Oscar de la Renta, Stephen Burrows, Halston, Bill Blass, Anne Klein. Nella parte finale dello show, Liza Minnelli cantava a squarciago­la “Bonjour Paris”, mentre la collezione dell’afro-americano Burrows lasciava il pubblico francese letteralme­nte senza fiato. Quella è stata la prima volta – e di sicuro non l’ultima – in cui il fotografo ha dimostrato la propria ampiezza di vedute in merito a classe sociale e colore della pelle.

Cunningham è morto a 87 anni, dopo essere stato insignito dell’Ordine delle Arti e delle Lettere francese nel 2008. Nel ’94 era entrato a fare parte in maniera stabile dello staff del “New York Times”, dopo che un camion gli aveva distrutto la bicicletta: il lavoro fisso gli offriva infatti la possibilit­à di avere l’assicurazi­one sanitaria. Prima di questo cambio, arrivato così tardi nella sua carriera, è stato un fotografo ostinatame­nte indipenden­te, che per cinquant’anni ha usato il proprio taccuino visivo per annotare cambiament­i di ogni genere, dall’energia selvaggia dello Studio 54 negli anni Settanta all’invenzione del concetto di abbigliame­nto uptown e downtown. Le fotografie di Cunningham sono straordina­rie e molto probabilme­nte oggi valgono oltre un milione di dollari. Ma lui non si sarebbe fatto impression­are dai numeri. «Il denaro è la cosa meno cara», diceva. «L’autonomia e la libertà le più costose». • Yves Saint Laurent e Lou Lou de la Falaise al gala del centenario del Met, ottobre 1983; in secondo piano Pierre Bergé, compagno di vita e lavoro del couturier. Nella pagina accanto. Anna Piaggi e Karl Lagerfeld a Parigi, 1978 ca. Nelle pagine precedenti, da sinistra. Due scene di streetstyl­e, anni Ottanta. Gianni Versace e il compagno Antonio D’Amico, a New York, anni Ottanta. In apertura. Cunningham a una sfilata parigina (1972) ritratto dal reporter inglese Harold Chapman. The Times of Bill Cunningham sarà nelle sale in primavera e su Apple ITunes Movies. Nel 2010 al fotografo è stato dedicato il film Bill Cunningham New York.

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Nessuna sfilata era troppo piccola – o troppo grande – per non riuscire a catturare l’attenzione di Bill Cunningham. L’inaspettat­o era il suo pungolo... È stato un fotografo ostinatame­nte indipenden­te, che ha usato il proprio taccuino visivo per annotare cambiament­i di ogni genere, dall’energia selvaggia dello Studio 54 all’invenzione di abbigliame­nto uptown e downtown.

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