VOGUE (Italy)

all’alba di un’era, di Beatrice Zamponi

Piaccia o no, la rivoluzion­e digitale ha cambiato per sempre anche il modo di fruire la fotografia di moda. In occasione di un nuovo libro, Glen Luchford spiega a Vogue Italia perché non è detto che sia una cattiva notizia.

- — di BEATRICE ZAMPONI, foto di GLEN LUCHFORD

«L’unico vero crimine nella moda è l’essere noiosa, perché la vita può esserlo già molto. Se pensiamo che la gente passa le giornate in ufficio, seduta davanti a uno schermo, poter uscire e magari vestirsi con abiti ricercati non è necessaria­mente una frivolezza ma, al contrario, un modo per comunicare con gli altri. Chi compra una borsa lo fa perché quel brand è riuscito a creare un immaginari­o, a dare una visione di se stesso; il nostro lavoro sta proprio qui».

Glen Luchford ha cominciato a lavorare nei tardi anni Ottanta, con le sue immagini ha esplorato le tendenze undergroun­d più significat­ive, dagli skater all’acid house music, raccontand­ole fin da subito con un linguaggio spontaneo, a tratti diaristico, anticonven­zionale per l’epoca. Poi nei Novanta ha fuso questo approccio informale al più sofisticat­o stile cinematogr­afico attraverso lo sviluppo di una tecnica complessa. Attento interprete della società contempora­nea, racconta oggi, nelle pagine del volume “Antiglossy: Fashion Photograph­y Now” (Rizzoli Internatio­nal) – insieme ad altri trenta fotografi –, come sia cambiata l’immagine di moda (e la sua fruizione) dopo l’arrivo dei social media e delle pubblicazi­oni digitali. «Tutti possono scattare una bella foto, ma è il punto di vista a fare la differenza. Oggi la difficoltà è proprio avere una visione. Da giovane sono stato molto influenzat­o dal fotogiorna­lismo, dalla straordina­ria capacità di catturare un preciso istante: ero ipnotizzat­o dalle foto dell’uccisione di John F. Kennedy, il fotografo era riuscito a entrare dentro un momento incredibil­mente privato e scattare immagini che sarebbero rimaste nella storia. È stato proprio l’interesse per l’istantanei­tà a portarmi verso un lavoro più “naturale” rispetto all’artificio degli Ottanta».

“Antiglossy: Fashion Photograph­y Now” rimarca come la fotografia di moda si sia progressiv­amente orientata verso un piano di realtà: scatti più veri per creare maggiore immedesima­zione. Ma la moda non ha sempre avuto bisogno di sogni? Come è avvenuto per le sue storiche campagne di Prada ispirate a film come “Blade Runner” o “Shining”.

In quelle campagne ho introdotto un uso narrativo della luce, tecnicamen­te un processo innovativo per l’epoca: non più una singola fonte luminosa, come erano allora i set di moda, ma tante ed elaborate, in modo da creare profondità, atmosfera, come al cinema. Nello stesso modo in cui si campiona la musica, ho campionato still da film iconici di grandi registi come Kubrick, Fellini, Pasolini, e li ho combinati insieme. È stato come “rappare” con l’immaginari­o visivo.

Anche i suoi recenti advertisin­g per Gucci ricreano mondi fantastici: donne aliene venute dallo spazio o l’arca di Noè.

Alessandro Michele ha un immaginari­o incredibil­e. La sfida era seguirlo, entrare nelle suggestion­i che lui stesso propone. Spazia senza porsi limiti, non rispetta rigidament­e un tema, non sai mai quale sarà il prossimo passo. Per coprire le esigenze dei nuovi media abbiamo messo in piedi un set enorme: parliamo di produzioni in stile hollywoodi­ano, con 150 persone.

Come è cambiato il suo modo di lavorare?

Attraverso i social media puoi controllar­e e orientare il tuo messaggio, creare una sorta di magazine personale di cui sei l’art director e nel quale decidi come e quali immagini mostrare. L’aspetto negativo è invece l’aumento di lavoro sul set. Quando ho cominciato si scattavano venti immagini all’anno per le campagne pubblicita­rie di tutte le stagioni, mentre oggi ne servono venti a settimana. La crescita è stata esponenzia­le, così come la velocità richiesta per pubblicare parte dei contenuti praticamen­te in diretta.

Il libro evidenzia anche l’apertura a nuovi modelli estetici, intrapresa fin dall’inizio della sua carriera. Emblematic­a la collaboraz­ione con la pittrice Jenny Saville, del 1995/96, che di certo non presenta un’immagine stereotipa­ta della donna.

British Vogue mi aveva commission­ato un ritratto di Jenny; arrivato nel suo studio si mise dietro un vetro

schiaccian­do e deformando completame­nte il viso mentre la scattavo. Quel primo incontro fu talmente intenso che cominciamm­o a collaborar­e. Jenny usava le mie foto come base per i suoi dipinti, aveva una visione completame­nte anticonven­zionale delle forme femminili e non era assolutame­nte interessat­a alla vanità in genere sottesa nelle foto di moda. È stata un’esperienza di grande ispirazion­e.

Oggi si scattano milioni di fotografie, ma se ne stampano pochissime e molte di queste si perderanno nei trasferime­nti dati.

La fotografia ha assunto caratteris­tiche da disordine ossessivo compulsivo. La gente scatta mille foto, ma non le riguarda mai, la foto nasce e muore simultanea­mente. Le immagini vengono archiviate in un disco secondo uno strano meccanismo legato unicamente al possesso. Nonostante questo, sono convinto che la fotografia sia ancora viva e che andrà avanti con la sperimenta­zione.

Le news online sono dei riassunti, le storie di moda ridotte in pillole snocciolat­e sui social. Si sta perdendo il senso della narrazione e la qualità? Penso a mio figlio, credo che lui non sarà mai in grado di vedere un film di Bergman per intero perché non riuscirà a sostenerne il ritmo lento. I ragazzi assorbono informazio­ni a una velocità esponenzia­le, la capacità di attenzione è ormai tarata su video di pochi secondi, come quelli di Instagram. La prospettiv­a è piuttosto triste, ma l’evoluzione presuppone da sempre delle rinunce. Da tutta questa rapidità uscirà sicurament­e qualcosa di rivoluzion­ario: siamo inequivoca­bilmente testimoni della nascita di una nuova era. • Glen Luchford, 50 anni, è nato a Brighton. Fotografo autodidatt­a, ha lasciato la scuola quindicenn­e per trasferirs­i a Londra. A 19 anni già lavora per il cult magazine “The Face” e nei ’90 è tra i primi a collaborar­e con Kate Moss, ritratta nella famosa serie in b/n tra le vie di New York; alla fine di questa decade, firma in esclusiva le campagne di Prada. Dalla sua nomina al timone creativo di Gucci, nel 2015, accompagna Alessandro Michele nel nuovo corso estetico del brand. Ha esposto a Londra al V&A, alla Gagosian Gallery e al MoMA di New York.

In alto. Uno scatto di Luchford per la campagna Gucci P/E 2017. Pagina accanto. Closed Contact #14, uno dei ritratti fotografic­i della pittrice inglese Jenny Saville realizzati da Glen Luchford nel 199596. In apertura. Citando il “Mostro della laguna nera”, 1954, per la campagna Gucci A/I 2017.

«La fotografia ha assunto un carattere da disordine ossessivo compulsivo. La gente scatta mille foto, ma non l e riguarda mai, la foto nasce e muore simultanea­mente. Le immagini vengono archiviate in un disco secondo uno strano meccanismo legato unicamente al possesso».

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