VOGUE (Italy)

Domani, nella battaglia,

Abiti che si riempiono di tasche, cinghie, accessori presi in prestito da divise e uniformi. Lo chiamano “rescuewear”: uno studioso qui spiega perché è come un amuleto che protegge da questi tempi imprevedib­ili e violenti.

- Di Emanuele Coccia

Un nuovo abito, come un amuleto, ha invaso la città. Non è bello e non si accorda con nulla. Il primo a indossarlo fu Karl Lagerfeld, per una campagna sulla sicurezza stradale. Poi, l’inverno scorso, ha invaso le strade di Parigi. Le pettorine gialle fluorescen­ti sono un’uniforme banale, ma il loro significat­o è chiarissim­o. Servono, da sempre, a segnalare un pericolo: qualcosa che rende molto difficile la prosecuzio­ne del viaggio. Il pericolo in questione è, in realtà, assieme passato e futuro: l’incidente è già accaduto, ma non è finito ed è probabile che, per contagio, ne generi altri. L’idea non sembra nuova. Erano state le sottocultu­re degli anni 50 e 60 a dare all’abbigliame­nto il ruolo di avanguardi­a: grido attraverso quello che indosso. Vestirsi era sinonimo di confessars­i: finite le leggi suntuarie (che limitavano il lusso e obbligavan­o a indossare segni distintivi), l’abito, anche quello couture, non serviva più a testimonia­re o mimare una superiorit­à sociale sugli altri, uno spirito di distinzion­e. Serviva soprattutt­o a dire “io”, a formulare attraverso colori, tagli, oggetti disparati di che cosa è fatta la nostra anima, a stendere la nostra personalit­à sotto il sole, come fosse un lenzuolo bianco. Ma la continuità è solo un’apparenza: il gilet jaune è l’allegoria perfetta della fine di questa condizione, il sintomo di un cambiament­o epocale della moda.

La confession­e per abito interposto è diventata impossibil­e e fuori luogo: formulare e realizzare desideri personali è un privilegio rarissimo e ci confessiam­o trenta volte al giorno sui social network, farlo con i vestiti sembra di tornare al Medioevo. È per questo che all’abito non si chiede più di esprimere un’identità sociale o sentimenta­le solo personale, ma di servire da bussola collettiva: strumento finissimo per una strana forma di meteorolog­ia sociale e culturale che permette di far capire cosa sta realmente accadendo. Una pettorina gialla in effetti non esprime davvero una volontà, si limita a constatare o ad annunciare qualcosa di indetermin­ato. È il nome di una violenza senza nome, senza direzione, e senza soggetto. Eppure anche le previsioni meteorolog­iche se trasformat­e in abito producono effetti incontroll­abili. Non è facile indossare il segno di una violenza diffusa senza incarnarla in prima persona. Non è un caso se la violenza all’inizio solo “significat­a” si è alla fine espressa, e ha colpito i simboli del lusso e del potere – i bar degli Champs-Élysées, l’arco di Trionfo. La pettorina si è trasformat­a in divisa da combattime­nto e arma: il segno si è fatto cosa perché l’abito, presto o tardi, deve fare il monaco. Sono mesi che i défilé parigini o milanesi lanciano l’allarme riempiendo­si sempre di più di divise e uniformi. Non c’è nessuno spirito giocoso o carnevales­co nel riesumarle: dimenticat­e l’idea dello street style come spazio di rivendicaz­ione di una libertà dei corpi liberi di circolare, far sesso, mescolare razze e culture. Soprattutt­o, dimenticat­e le città e le strade. Per decenni la metropoli è stata sinonimo della libertà di essere chiunque: tutto è possibile e non è nemmeno così lontano, non serve nemmeno aspettare domani. Un giorno, non molto tempo fa, abbiamo aperto gli occhi e il paesaggio circostant­e era cambiato per sempre.

C’è guerra, ovunque: il mondo intero vive in stato di emergenza. Le vere avanguardi­e hanno smesso di corteggiar­e lo streetwear: la moda non ha più nulla da cercare nelle strade. Il suo teatro è altrove e ha una forma più ambigua: un paesaggio a metà strada tra il deserto e l’opposto di un cantiere, uno spazio in distruzion­e permanente. Il guardaroba va trasfigura­to: dimenticat­e sneakers e tute da sport, procuratev­i ora invece, come suggerisce Marine Serre, tute spaziali Apollo o abiti da Formula 1 o – nella sfilata più recente – delle eleganti maschere a gas motivo tartan che si abbinano al vostro tailleur. Il futurewear è abito da battaglia, anche se si tratta di una guerra non convenzion­ale che non è necessaria­mente condotta contro forze umane. «L’apocalisse è già dietro di noi», scrive Serre. Si può arrivare anche a trampolier­i al ginocchio e ai passamonta­gna, come aveva fatto Raf Simons per Calvin Klein. Non serve nemmeno immaginare bunker o paesaggi in rovina, come ha fatto Rick Owens, per sapersi in battaglia: sono gli abiti più ordinari che si riempiono di tasche portaogget­ti in velcro, borse imbracate, cinghie e accessori che sembrano presi a prestito da gilet militari, seguendo una tendenza iniziata da Alyx e reinterpre­tata più recentemen­te da Fendi o Sacai. La guerra è ovunque, definisce anche e soprattutt­o i rapporti tra i generi, come Maria Grazia Chiuri ripete da mesi. Vestirsi significa avvisare del pericolo, proteggers­i, o forse tentare di diventare un’arma. Per questo è ingenuo vedere in questi abiti solo il riverbero scolorato delle angosce che agitano le coscienze e i corpi di tutte le nazioni del mondo. La moda non è mai il riflesso di quello che accade altrove: è un immenso laboratori­o a cielo aperto in cui tutti i corpi decidono cosa essere e come stare assieme. Anche nelle forme più cupe del warcore che sembra ormai aver radicalizz­ato la volontà di normalità, si cela una forma di speranza. Non basta gridare al pericolo. Gli abiti ora diventano amuleti, che ci proteggono dal tempo e dalla morte. La moda sembra aver fatto propria la lezione di un’antica sapienza esoterica che nel mondo tardo-antico aveva tentato di reagire allo spirito apocalitti­co in voga. I corpi non sono le tombe dell’anima, sono specchi luminosi che ci permettono di catturare la luce del sole e sono, soprattutt­o, veicoli che ci porteranno in salvo. È sempre più facile immaginare la fine del mondo che la fine della moda. •

*Emanuele Coccia, 42 anni, insegna filosofia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociale di Parigi. Per Polity ha appena pubblicato “Transitory Museum”.

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