L’Intervista/2 una foto è un seme,
Non travolgere con facili emozioni, ma crescere senza fretta nella mente di chi guarda: alla vigilia di una nuova esposizione PAOLO PELLEGRIN, il più noto fotoreporter italiano, racconta l’essenza del suo lavoro.
Paolo Pellegrin ha fallito. Voleva che le sue foto crescessero piano, che il suo scatto fosse più lento del pensiero di chi ne avrebbe ammirato il risultato. Ma non è andata così: i giurati del World Press Photo hanno già premiato i suoi reportage di guerra dieci volte. Il Maxxi di Roma gli ha dedicato una retrospettiva, e Kathy Ryan, photo editor del “New York Times Magazine”, dice che le sue sono immagini «fuligginose, schizzi a carboncino, che ci fanno stare al buio per vedere meglio i momenti di luce che emergono dalle tenebre». Eppure lui insiste: «Una foto non è un’ideologia che stravolge le menti ma è un seme: se sposta qualcosa lo fa senza fretta, crescendo dentro chi la guarda». “Confini di umanità” è la personale che dal 24 maggio al 30 giugno gli dedica il festival di antropologia di Pistoia Dialoghi sull’uomo, e pensata per la decima edizione della manifestazione, dedicata al tema “Con-vivere”.
È leggenda o verità che il suo sguardo sarebbe condizionato da un serio difetto visivo?
Oltre a essere miope e astigmatico soffro di una forma aggressiva di glaucoma, debolezza che ho cercato di trasformare in forza. A tredici anni ho letto “A scuola dallo stregone” di Carlos Castaneda, che ha instillato in me un seme, l’idea che ogni giorno vada vissuto come fosse l’ultimo. Perché come l’orizzonte della vita è un mistero, allo stesso modo lo è l’orizzonte della mia fotografia. Accanto a vent’anni di foto fatte c’è di certo una pinacoteca di immagini mai scattate. Quali?
Nell’etica di esserci mentre le tragedie altrui sono in corso ho chiare in mente due cose: la mia funzione documentale e il fatto d’essere di fronte a persone vulnerabili, disempowered. La maggior parte delle volte queste due tensioni s’allineano. Altre, no. Ricordo un episodio del 2003, durante l’invasione americana in Iraq. Mi trovavo in un ospedale di Bassora accanto a due medici che per un tempo infinito hanno cercato di rianimare una bambina, e son rimasto gelato. Da anni studio Reiki e ricordo di aver iniziato a praticare, in quella stanza, nel tentativo di aiutarli a salvarla. Uno di quei momenti in cui ti sembra di toccare qualcosa di troppo grande. Momenti che vanno lasciati stare. Cosa prova quando un collezionista acquista una delle sue immagini più drammatiche?
La sensazione d’aver chiuso un cerchio. Le mie sono fotografie aperte, che si completano nell’incontro con lo sguardo altrui. È in questo scambio che le immagini si caricano di intenti e di pensieri. Per come la vedo io, finire nelle case è il rimbalzo infinito del loro dovere.
Le pareti della sua sono bianche.
Da quando faccio questo mestiere è così. Credo di avere un bisogno profondo di silenzio.
Di fronte alla tragedia umana è legittimo porsi il problema dello stile?
Sì, perché composizione e forma sono gli strumenti che il nostro artigianato ha a disposizione per trasmettere etica. Detto questo, io non credo di avere uno stile, bensì un linguaggio, che ho studiato come un linguista approccerebbe un idioma di ceppo uralico. E ci faccio un braccio di ferro continuo, tra quello che so fare e il desiderio di scordarmelo per rendermi una tela bianca. È il “be like water” di Bruce Lee. Il risultato del mio interesse verso la meditazione.
Le antologiche la portano a ripercorrere il suo passato di fotografo di guerra. Ma di cosa ha voglia, adesso?
Un anno fa sono partito con una missione Nasa in Antartide: abbiamo sorvolato i ghiacciai a bordo di un vecchio aereo cacciasottomarini che può volare bassissimo, e il tema del cambiamento climatico è emerso in modo violento. Vorrei continuare a immortalare la bellezza e la sacralità di quel paesaggio, che all’inizio sembra bianco poi man mano ne noti i crepacci, le linee create dal vento. Ma vorrei aggiungerci elementi di scienza, dura, magari utilizzando video o installazioni.
Nel suo libro “Storm” ha unito scatti di moda e ricerca ambientale. Che collegamento ci ha visto?
Nessuno: semplicemente, temevo che la moda da sola fosse frivola. Ma ho dovuto cambiare idea: nel 1997, dopo aver visto una mia mostra alla Galleria Sozzani di Milano, Krizia mi chiese una campagna. Poi sono venuti Fred Perry, Belstaff, Nike. Ho capito quanto sia una cosa seria. Frivolo, lo sono stato io.•