una parabola felice,
Ha firmato infinite foto di moda e copertine di Vogue. Ora un libro racconta (per immagini, naturalmente) il lavoro di Tonne Goodman, essenza di stile americano. Qui ne scrive con una collega che la conosce bene.
Se si volesse cercare una donna capace di incarnare l’estetica del grande stile americano, tutte le frecce punterebbero nella direzione di Tonne Goodman. Tra chi siede in prima fila alle sfilate, lei – slanciata, con i folti capelli lunghi, sempre impeccabile nella sua tipica uniforme fatta di blazer, camicia, pantaloni bianchi e mocassini – è un modello di professionalità, la cui influenza ha attraversato quattro decenni, nei quali ha saputo ritrarre il meglio della cultura americana attraverso sofisticate immagini di moda, e un’infinità di copertine di “Vogue”. “Tonne Goodman: Point of View” (Abrams Books editore) è una sorta di autobiografia per immagini di moda, 352 pagine di puro splendore, rifratte attraverso la luce del suo gusto infallibilmente moderno e straordinariamente raffinato. In copertina, di una classicità senza tempo, c’è la fotografia di una donna che posa con eleganza in un abito bianco lungo fino ai piedi, i capelli lucenti stretti in un perfetto chignon raccolto sul collo affusolato. Chi, come me, conosce Tonne – l’ho incontrata la prima volta negli anni 90 – deve guardare l’immagine due volte. Si tratta in realtà di Daria Werbowy con indosso un abito di Calvin Klein (dei tempi in cui Francisco Costa disegnava la collezione), fotografata da David Sims per un “Vogue” America del 2009, ma è così vicina all’essenza fisica della stessa Tonne, che potrebbe quasi sembrare un autoritratto.
Le tendenze della moda vanno e vengono – compito del fashion editor riuscire a catturarle – ma ciò che distingue dalle altre un’immagine che dura nel tempo è il talento di riuscire a orchestrare una visione più profonda. «Direi che si tratta del connubio tra significato ed emozione», afferma Goodman. Nel corso di una carriera passata a scattare con un’intera enciclopedia di fotografi – Bruce Weber, Peter Lindbergh, Patrick Demarchelier, Mario Testino, David Sims – e con tutte le più importanti modelle, dalla A alla Z, ha contribuito alla realizzazione di migliaia di immagini che senz’altro risulteranno familiari ai lettori di “Vogue” America dal 1999, e a quelli di “Harper’s Bazaar”, dove è stata fashion editor dal 1992. Prima era vicepresidente del reparto advertising di Calvin Klein, dove ha collaborato in forma anonima a quel sensuale immaginario in bianco e nero, straordinariamente minimal, che ha reso il marchio un vero e proprio mito a cui aspirare nella New York anni 80. Il racconto di come ha lavorato con Calvin per arrivare a un’estetica perfetta ci dice tutto sulla precisione del suo metodo. «Oh, da Calvin Klein era una riflessione continua, il confronto su un fitting poteva durare per ore», dice scoppiando a ridere. «Mi ricordo un giorno in cui stavamo guardando un semplicissimo vestito nero di jersey. Dovrebbe essere mezzo centimetro più corto, o magari più lungo? O tirato un po’ giù, per far vedere la clavicola? La modella indossava dei tacchi a spillo. A un certo punto ho detto: “E se mettessimo dei sandali bassi?”, e di colpo era un abito completamente diverso. Calvin ha detto sì. Così è stato poi presentato in sfilata».
Sfogliando il libro alla ricerca del segno distintivo di Tonne Goodman vengono in mente definizioni come asciuttezza, sobrietà, sottigliezza – così come spicca l’abilità di rappresentare moltissime sfaccettature diverse dell’ideale americano di energia e di atleticità. Ma la cosa che ha superato la prova del tempo, e che è per lei molto importante, è la narrazione personale che ne emerge. «Quando l’ho sfogliato, mi sono resa conto che ci sono davvero tantissime cose che provengono dalla mia esperienza personale». Leggendo tra le foto, spesso c’è un retroscena nel quale si può intravedere il suo amore per gli sconfinati paesaggi americani, e anche qualcosa di tenero, di persino fuggevolmente spirituale. «Alla fine, deve comunque esserci una parabola felice, un senso di gioia». Sarebbe capace di smuovere le montagne per realizzare un’immagine. All’inizio degli anni 90, ad “Harper’s Bazaar”, per un servizio di Peter Lindbergh, ha trasformato Amber Valletta in un angelo che si aggirava per le strade di New York; un’immagine che Tonne mette in relazione con la benedizione della scoperta di essere incinta del suo primo figlio. In un’altra occasione si è procurata una portaerei per un epico re-enactment dell’arrivo di Raquel Welch e Bob Hope a intrattenere le truppe nel 1967, con Linda Evangelista come protagonista. «Avevamo una sceneggiatura. Linda è rimasta nel personaggio per tutto il tempo, è stata davvero straordinaria. Ci siamo divertiti tantissimo». Mentre il lavoro di Grace Coddington, sua amica di lunga data, è noto per essere tremendamente romantico e profondamente inglese (e comprende spesso scorci di autoritratto con capelli rossi), la sensibilità di Tonne è radicata nell’estetica aristocratica della sua educazione americana. Lei mette in relazione la propria economia di stile con un’innata affezione per la storia del suo paese: «La donna americana è molto, molto pragmatica. È un tratto distintivo che si potrebbe far risalire ai primi pionieri, ai semplici vestiti calicot che fabbricavano; la tradizione dello sportswear si è poi sviluppata durante le restrizioni della Seconda Guerra mondiale. Tutto deve essere semplice e facile da indossare».
Tonne Goodman è nata a New York, da una madre artista e un padre chirurgo, persone eleganti che Alfred Eisenstaedt aveva fotografato per “Life” magazine, definendoli “la coppia più bella di New York”. Ogni sera,
«La donna statunitense è molto, molto pragmatica. È un tratto distintivo che risale ai pionieri, ai semplici vestiti che fabbricavano; la tradizione dello sportswear poi si è sviluppata durante le restrizioni della Seconda Guerra mondiale. Tutto deve essere semplice e facile da indossare».
i suoi si vestivano per la cena, mentre dopo la scuola «nostra madre ci portava a visitare musei e gallerie, oppure a Central Park, dove si sedeva a dipingere mentre noi bambini giocavamo. Un po’ più tardi mi ha portato a prendere lezioni di disegno dal vero alla Art Students League». Una volta diventata una teenager dalle gambe lunghe, iscritta alla scuola privata Brearley, si è ribellata indossando pantaloni di velluto a coste larghe invece dell’uniforme, ha partecipato a manifestazioni contro la guerra in Vietnam ed è diventata una fanatica della moda. Si è presto fatta notare. Quando era ancora una studentessa d’arte, nel 1969, ha cominciato a fare la modella per “Mademoiselle”, è stata ritratta da Avedon, Penn e Bert Stern per “Vogue”, per poi trovare lavoro, fino al 1977, come assistente di Diana Vreeland al Costume Institute del Metropolitan Museum dove, sotto la sua rigorosa supervisione, ha contribuito ad allestire numerose mostre. Il salto fortunato verso l’editing di servizi di moda è arrivato quando Carrie Donovan, editor del “New York Times Magazine”, l’ha voluta con sé e messa subito a lavorare con Helmut Newton.
La storia racchiusa nel suo libro attraversa interi decenni di abiti e stili, l’epoca d’oro delle supermodelle, l’ascesa delle celebrità e degli atleti olimpici, nonché l’immenso catalogo di cover che ha realizzato per “Vogue” America e “Harper’s Bazaar”. È insomma la testimonianza della carriera di una donna che, con la sua spiccata personalità, rappresenta in tutto il suo fulgore quel che può essere, al meglio, la moda americana. •