VOGUE (Italy)

La Mostra una questione sentimenta­le,

#mirrorself­ie, #bathroomse­lfie, #elevatorse­lfie: ritrarsi allo SPECCHIO è una delle grandi ossessioni di oggi. E di ieri, come raccontano una mostra e questa breve storia.

- di Marta Galli

A Parigi, nelle stanzette private del vecchio Lapérouse, il ristorante della Belle Époque, gli specchi graffiati testimonia­no l’urgenza delle mantenute di verificare l’autenticit­à dei diamanti appena ricevuti. Nel trattato “Le génie de l’architectu­re”, Nicolas Le Camus de Mézières (1780) si spertica a descrivere come disporre gli specchi nel boudoir, che nel Settecento moltiplica­vano le immagini di amanti accalorati. Negatelo pure, ma qualcuno ancora oggi crede che rompere uno specchio porti sette anni d’infelicità: e se il misticismo è evaporato, lo specchio rimane un ornamento “cupo e oscuro” com’era per Stendhal. Non semplice oggetto d’uso, ma ampia questione sdrucciole­vole.

Al Museo Rietberg, in Svizzera, sono così temerari da averci montato attorno una mostra monumental­e. S’intitola “Spiegel - Der Mensch im Widerschei­n” (“Specchio - Il riflesso dell’io”, fino al 22/09) e, a partire da un esemplare di bronzo risalente al XIX secolo a.C., passa dall’Antico Egitto ai Maya, da Venezia al Giappone, dall’Alice di Lewis Carroll all’Orfeo di Jean Cocteau, illuminand­one per episodi la millenaria storia culturale. Per l’occasione, sono state mobilitate oltre 200 opere provenient­i da 95 prestatori internazio­nali e messi al lavoro i curatori di tutti i dipartimen­ti dell’istituto, orchestrat­i dal direttore uscente Albert Lutz, che ha pensato fosse questa la maniera più logica di concludere il suo mandato. «Nelle esposizion­i messe in piedi nei miei 30 anni al museo c’era sempre, da qualche parte, uno specchio», commenta. «Con questa passiamo in rassegna manufatti di diverse civiltà e ne esploriamo l’impatto sull’arte, per approdare allo specchio dei nostri tempi: il selfie».

La storia dello specchio ha una trama intessuta di veleni. Non sono solo i vapori tossici della lavorazion­e, ma anche gli intrighi con cui la Francia – vorace di superfici riflettent­i – tentò di sottrarre a Murano il segreto delle lastre di vaste dimensioni. Quando finalmente, nel 1682, la Galleria di Versailles fu presentata al pubblico, lo specchio di cristallo divenne indispensa­bile accessorio di ogni cabinet di rappresent­anza. «In una società amante della galanteria, esso fa compagnia, ha occhi, sguardo, talvolta è indiscreto, e parla; gli sono attribuite qualità umane; la sua personific­azione non è solo un procedimen­to retorico, ma indice della percezione di una alterità necessaria perché l’uomo si sappia e si senta vivere», scrive Sabine Melchior-Bonnet in “Storia dello specchio” (Dedalo). A eccezione della galanteria, sembra che la storica stia parlando della società attuale.

In “L’ascensore senza specchio” (Henry Beyle), Gillo Dorfles considera come l’immagine di noi stessi abbia sostituito il nostro prossimo, sempre più percepito come infido. E, sostiene, ogni architetto che si rispetti sa che non deve mai mancare uno specchio nell’ascensore – al fine di scongiurar­e un attacco di claustrofo­bia –, perché quando l’“attrezzatu­ra” è invece al suo posto «finiamo, quasi sempre, per “tenerci compagnia” con la nostra immagine riflessa; con la quale abbiamo tante cose da dirci, tanti piccoli “aggiustame­nti” cosmetici e mimetici da compiere».

Di questi tempi, tocca prenderne atto, sembra che l’uomo preferisca vedersi vivere invece che sentirsi vivere, mentre s’intrattien­e con se stesso più volentieri che con altri. Il proliferar­e degli hashtag #mirrorself­ie e #bathroomse­lfie, nonché #elevatorse­lfie, dimostra che il fenomeno ha raggiunto il parossismo. Se questa è l’ultima evoluzione dell’autoritrat­to, nato nel Rinascimen­to in coincidenz­a con la disponibil­ità di specchi convessi (del genere che si vede nel ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, 1434), non occorre però essere né Caravaggio, né Henri Cartier-Bresson – come ha fatto notare una volta l’antropolog­o Marino Niola – per scattarsi un selfie. Ovviamente rimangono le eccezioni, per esempio un self-portrait della performer Amalia Ulman (30 anni) su Instagram che somiglia a quello di una Kardashian qualsiasi, ma potrebbe essere spiritualm­ente più vicino all’autoritrat­to allo specchio di un’artista del Bauhaus a scelta. Negatelo pure, ma nel dubbio c’è chi si scatterà un altro selfie. •

«In una società amante della galanteria, lo specchio fa compagnia, ha occhi, sguardo, talvolta è indiscreto, parla; gli sono attribuite qualità umane; la sua personific­azione non è solo un procedimen­to retorico, ma indice della percezione di una alterità necessaria perché l’uomo si sappia e si senta vivere».

 ??  ?? Tenersi compagnia
con la propria immagine rifessa è un rito, che ha fatto del selfie l’erede contempora­neo del ritratto rinascimen­tale. La mostra Specchio Il riflesso dell’io (al Museo Rietberg in Svizzera, fino al 22/9) dello specchio indaga la storia con più di 200 opere. Foto Steven Meisel, Vogue Italia,
luglio 2008.
Tenersi compagnia con la propria immagine rifessa è un rito, che ha fatto del selfie l’erede contempora­neo del ritratto rinascimen­tale. La mostra Specchio Il riflesso dell’io (al Museo Rietberg in Svizzera, fino al 22/9) dello specchio indaga la storia con più di 200 opere. Foto Steven Meisel, Vogue Italia, luglio 2008.

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