VOGUE (Italy)

L’Appuntamen­to il corpo in guerra,

In 50 anni, LES RENCONTRES D’ARLES si sono affermati come uno dei festival fotografic­i più attenti ai temi del nostro tempo. Come l’umana fisicità, che per il direttore Sam Stourdzé può essere “un’arma”.

- di Sofia Mattioli

Arles è già stata epicentro di una rivoluzion­e in tema di percezione e rappresent­azione del corpo. Era il 1987 e il mondo si raffrontav­a con il ritratto corale “The Ballad of Sexual Dependency” di Nan Goldin. Non è raro che micce come queste si inneschino nella città provenzale: con un programma suddiviso in focus, macrotemi per interpreta­re il reale, Les Rencontres d’Arles non solo sono tra i più longevi appuntamen­ti annuali di fotografia, ma anche tra quelli che meglio indagano il presente. Quest’anno, la cinquantes­ima edizione (dall’1/7 al 22/9) include nel programma 50 mostre con focus sull’ambiente, sulle identità culturali, sulla produzione di immagini nella società contempora­nea. Una sezione è dedicata al potere del corpo, collettivo, individual­e, pubblico o privato. «È importante parlarne ora, è tra i temi chiave dell’attualità», dice Sam Stourdzé, 46 anni, direttore del festival dall’ottobre 2014.

Citando il titolo del focus “Mon corps est une arme”, perché il corpo è un’arma?

Il titolo è provocator­io: il corpo in più paesi è stato interpreta­to e raffigurat­o come uno strumento di resistenza. Lo è nelle manifestaz­ioni di piazza, così come per gli artisti avant-garde in Cina negli anni Ottanta o per i fotografi della Germania Est prima del 1989 (a loro è dedicata una delle mostre di quest’anno, nda), che avevano poche altre forme di espression­e dell’individual­ità.

Indagine politica e analisi delle dinamiche relazional­i private. Qual è il fil rouge che lega i progetti selezionat­i? Riceviamo ogni edizione circa duemila proposte, la selezione è frutto del lavoro di un anno. Vogliamo, al di là dei vari focus, proporre letture trasversal­i: quella di quest’anno è un affresco degli anni Ottanta in Europa. Cerchiamo sempre progetti poco visti in festival internazio­nali. Il pubblico che viene ad Arles spesso scopre nomi che non conosce. Come Libuše Jarcovjáko­vá, che ci restituisc­e immagini dal potere evocativo pari a quelle di Nan Goldin. Lavori come questi spazzavano via dei tabù. Oggi ne restano ancora da infrangere?

Una delle mostre in programma traccia la storia de “La Movida” in Spagna e racconta cosa volesse dire rompere i tabù negli anni Ottanta. Osservando oggi quelle immagini abbiamo l’impression­e che siano state realizzate in un periodo più libero rispetto al presente. Quindi la risposta è sì, abbiamo ancora tabù da infrangere.

Quali, in un’epoca affollata di rappresent­azioni di corpi, perfetti o imperfetti che siano?

Quello della percezione che il reale sia univoco, per esempio. La fotografia è per sua stessa natura un paradosso che può alterare il corpo, trasformar­e l’immagine, e allo stesso tempo, mostrarne l’autenticit­à.

Nel flusso ininterrot­to di stimoli visivi contrastan­ti, che ruolo ha un festival come Les Rencontres d’Arles?

Il linguaggio visivo è quello che viene perlopiù parlato oggi, in primis attraverso Instagram e i social media. Arles è un posto dove premi il tasto “pause” e inizi a ripensare al significat­o di gesti come produrre, osservare e rispondere a un’immagine. In tale prospettiv­a credo che il festival in questi tempi sia utile a tutti. Tutti abbiamo una grande responsabi­lità nel “visual noise”.

Cosa è cambiato dalla prima edizione nel 1969? Abbiamo capito, fin dall’inizio, che il successo dei Rencontres d’Arles derivava dal connubio tra la città, la possibilit­à di allestire mostre in luoghi inusuali e la fotografia. Era questo lo scopo del festival 50 anni fa e credo che sia questo anche oggi. Il cambiament­o più grande riguarda i visitatori. Cinquant’anni fa, i musei di fotografia e i festival erano quasi inesistent­i e il pubblico era composto da un gruppo di appassiona­ti; oggi abbiamo un’audience ampia che cerca esperienze a 360 gradi. Mi piace pensare che a fine giornata i visitatori si siedano a un caffè e ripensino a quanto visto durante il giorno.

Come è mutata, negli anni, la lente attraverso cui definire canoni estetici?

Il ruolo dell’imperfezio­ne è cambiato e non solo nella rappresent­azione del corpo: quello che veniva etichettat­o come “photograph­ie brute” trenta o venti anni fa è stato oggetto di un processo di rivalutazi­one e oggi è parte di una determinat­a estetica.

Anche la fotografia di moda ha contribuit­o a cambiare le regole del gioco.

Sì, generando immagini che evocano un’atmosfera, un mood e includono il corpo in una cornice...

Gli effetti del cambio di rotta saranno duraturi o c’è il rischio che siano solo specchio dello Zeitgeist?

Non credo che sia solo frutto dello spirito del tempo. Siamo nel mezzo di una rivoluzion­e su più fronti che ha un grande impatto sulle nostre vite, un impatto che non sappiamo comprender­e pienamente oggi. Per ora possiamo solo dire che è un periodo molto fertile per gli artisti, ci sono tante questioni da affrontare.•

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vogue.it n. 826
 ??  ?? Qui accanto. Evangelia Kranioti, Eu sou obscura para mim mesma, dalla serie Obscuro Barroco, dedicata alla scena queer di Rio de Janeiro e a Luana Muniz (nella foto), celebre trans brasiliana, scomparsa nel 2017, su cui Kranioti ha girato anche un documentar­io. Gli scatti della fotografa ateniese (1979) sono inclusi nella sezione Mon corps est une arme e sono esposti nella Chapelle Saint-Martin-du-Méjan.
Qui accanto. Evangelia Kranioti, Eu sou obscura para mim mesma, dalla serie Obscuro Barroco, dedicata alla scena queer di Rio de Janeiro e a Luana Muniz (nella foto), celebre trans brasiliana, scomparsa nel 2017, su cui Kranioti ha girato anche un documentar­io. Gli scatti della fotografa ateniese (1979) sono inclusi nella sezione Mon corps est une arme e sono esposti nella Chapelle Saint-Martin-du-Méjan.

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