Il Libro cento per cento magazine,
VINCE ALETTI vive con (almeno) diecimila riviste in casa. Ora le più rilevanti le ha raccolte in un volume: «Dove racconto perché questa storia di carta non è ancora finita, anzi».
Tutti i maggiori fotografi di moda hanno concepito e creato i loro lavori migliori proprio per i fashion magazines. Vince Aletti (74 anni), scrittore, critico e curatore americano fra i più stimati nel panorama internazionale, con “Issues: A History of Photography in Fashion Magazines” (Phaidon) firma uno tra i volumi più interessanti, originali e au courant mai scritti sulla storia della foto di moda, ripercorrendola dal 1925 al 2018 attraverso i 100 issues delle riviste preferite scelte dal suo archivio.
Il suo libro inizia così: «Da molto tempo misuro gli anni dai September Issues». Perché ha scelto di scrivere dei numeri delle riviste, invece che, per esempio, delle singole immagini, o dei fotografi?
Volevo fosse subito chiaro che è un fatto molto personale, il frutto di una spinta ossessiva e fortissima per me. Penso sia importante vedere le immagini di moda all’interno del contesto in cui sono state presentate in origine: le pagine di una rivista. Credo infatti che i migliori fotografi di moda abbiano sempre pensato che i loro scatti sarebbero stati recepiti così, e quindi così andavano concepiti. Per me, almeno il 99 per cento di quelle foto non esisterebbe al di fuori di un giornale. Moltissimo di ciò che mi interessa vive solo sulla pagina, non è pensato per essere visto attraverso il vetro di una cornice. Questa è una parte molto importante di ciò che amo della foto di moda: la sequenza, il design, la grafica, l’immediatezza di tenere in mano una rivista.
Esiste un momento particolare che ha fatto nascere questa passione per le riviste di moda?
Probabilmente si è trattato di una serie di eventi, ma il numero chiave, come dico nel libro, è quello del ventesimo anniversario di “Harper’s Bazaar”, l’aprile 1965 di Richard Avedon (con Jean Shrimpton in copertina). Da sempre sono un fan di Avedon, ed è lì che ho capito come, nella storia del fotografo, quello specifico issue abbia la stessa importanza di qualunque suo libro. Coglieva appieno un momento preciso della sua espressione artistica. E per me ne rifletteva uno della cultura pop in cui ero particolarmente coinvolto. Quel numero di “Harper’s” era concepito con la stessa cura e intelligenza di un libro – dalla cover alle singole immagini. È l’esempio di ciò che può essere un magazine ideale. Proprio il tipo di rivista che ho cercato per il mio libro.
Cosa hanno introdotto art director geniali come Alexander Liberman e Alexey Brodovitch nei magazine e nella foto di moda per cambiarne completamente gli scenari? Entrambi non erano solo interessati alla foto di moda, ma al medium fotografico in generale: questo è un punto chiave del mio libro. Liberman e Brodovitch hanno pubblicato autori come Cartier-Bresson, Lisette Model, Bill Brandt, Brassaï, Walker Evans, Diane Arbus, i cui lavori hanno permesso alle riviste di avere una rilevanza culturale altrimenti impensabile. Tutti e due avevano il polso della situazione culturale e credevano nell’importanza di comunicarla ai lettori.
Ha citato Lisette Model e Diane Arbus, e nel libro scrive del numero di “Vogue” del giugno 1945, quello con le immagini delle pile di cadaveri scattate da Lee Miller a Buchenwald e a Dachau. Oggi le riviste di moda si occupano ancora di tematiche di rilevanza sociale?
Il caso di Lee Miller in quel numero è unico. Ed è uno di quelli per cui ho voluto fare questo libro. È stato incredibilmente importante e ancora oggi risulta traumatico e inquietante. Non credo che sarebbe stato realizzato senza tutti quegli anni di guerra, a un certo punto le riviste non potevano ignorare il contesto sociale in cui la gente viveva. Inoltre, in quegli anni il ruolo delle donne è radicalmente cambiato, le riviste non potevano non tenerne conto. Non riesco a immaginare circostanze che ora possano avere lo stesso impatto sui fashion magazines. Anche se, per esempio, il modo in cui le persone di colore sono rappresentate sulla carta stampata oggi è radicalmente diverso. C’è voluto moltissimo tempo per vedere delle modelle nere sulle copertine. Non penso davvero che i giornali potranno tornare indietro. E personalmente mi auguro proprio che non accada.
Lei dice che il ruolo delle donne è cambiato nel 1945. Nel libro spiega come le riviste di moda abbiano non solo raccontato, ma sostenuto i mutamenti culturali. Quali sono stati i momenti più importanti della trasformazione dell’immagine femminile? Nel libro scrive di Martin Munkácsi, oltre che di Avedon.
La società si è trasformata radicalmente durante la guerra, e sempre più donne hanno iniziato a lavorare. Le riviste non si sono limitate a riconoscerlo, sono state parte integrante del cambiamento. Incoraggiandolo, raccontandolo. Poi, a guerra finita, le donne non sono tornate a chiudersi in casa. Ormai erano parte della scena culturale, e molti dei cambiamenti che si stavano verificando erano trainati proprio da quello che sarebbe diventato il movimento femminile. Le riviste cominciarono a farle vedere non soltanto come eleganti padrone di casa, o socialite. Erano là fuori, nel mondo. Molto più impegnate, padrone della propria vita, sportive e “sessuali”. Il lavoro di Martin Munkácsi è incredibilmente importante in tal senso. Non c’era nessuno come lui nei fashion magazine, era più un fotogiornalista, ed è con questo approccio che ha scattato anche la moda, mostrando le donne in un ruolo attivo ben prima che ciò diventasse un’istanza culturale diffusa. Avedon, poi, che è stato largamente influenzato da Munkácsi, non solo ha portato le modelle in strada, ma ha anche introdotto il senso della narrazione, costruendo un mood che riusciva a sostenere per oltre venti pagine. Secondo
me, è la chiave di volta della fotografia di moda, della sua modernizzazione: all’improvviso, tutte le immagini prima di lui sembravano vecchie, sorpassate.
Nel libro ci sono molte similitudini nel modo in cui lei scrive di Avedon e di Steven Meisel. Si può dire che il secondo ha omaggiato spesso i lavori del primo, senza però mai arrivare al plagio?
Sì, in Meisel ci sono continui riferimenti ad Avedon, ma è sempre un chiaro omaggio creativo. Non ho mai avuto l’impressione che lo copiasse, semmai che lo sfidasse, che riuscisse a fare Avedon meglio di Avedon. È diventato così importante proprio perché ha assorbito non solo Avedon, ma tutto ciò che l’ha preceduto e tutto ciò che lo circondava: ecco perché penso che Meisel sia così straordinario. È vorace in termini di influenze culturali, guarda tutto, assorbe tutto. E lo restituisce in un modo unico, personale. Lo considero ancora oggi il più geniale tra i fotografi di moda contemporanei. L’unico all’altezza di Avedon.
Lei scrive anche che Meisel è stato più provocatorio ne “L’Uomo Vogue”. Forse perché, lavorando con modelli, poteva mettere in discussione le rappresentazioni stereotipate della mascolinità?
Sì, spesso è stato così. Steven Meisel, Steven Klein, e tutti coloro che hanno collaborato a “L’Uomo” negli anni 90 hanno prodotto lavori incredibili. Erano davvero interessati a sfidare le idee preconfezionate sulla sessualità.
Nel libro parla anche di Kate Moss e del famoso servizio di Corinne Day per “The Face” del luglio 1990.
Day e Moss hanno colto un istante preciso, trasformatosi poi in un movimento che non era tanto antimoda, quanto una reazione alle forzature e agli eccessi degli anni 80, che stavano appesantendo la moda fino ad affossarla. Lei scrive: «Irving Penn era interessato principalmente al ritratto, agli still life: lavori che gli consentivano di concentrarsi più sullo stile che sulla moda. Nella serie “Small Trade”, Penn rifletteva su come la nostra identità si definisce in base a ciò che indossiamo». Ma la moda non dovrebbe essere un modo per esprimere chi siamo? Certo! È proprio questo il grande valore di Penn. Andava oltre i designer, interessandosi al modo in cui le persone si presentavano, e credendo fosse fondamentale documentarlo. Questo è un altro dei motivi per cui le riviste di moda sono così importanti: sono state loro a dare spazio a questi contenuti, intuendone la rilevanza per una riflessione autentica sul concetto stesso di moda.
L’ultima rivista di cui parla nel libro è “Document”, per lei emblematica di un certo tipo di pubblicazioni accomunate da un immaginario simile, come “ReEdition”, “Dust”, “Luncheon”, “Hero”, “At Large”, “Let’s Panic”, “Hercules Universal”, “System”, “Candy”. La scelta di parlarne nell’ultima pagina del volume sembra assumere un significato particolare. Ieri, pochi magazine producevano editoriali memorabili, che hanno modellato la nostra visione del mondo e della società in cui viviamo… Oggi, moltissime ispirazioni diverse. Esiste qualcosa che riesca davvero a imporsi, a fare la differenza?
Difficile a dirsi. Spesso mi sento sopraffatto. Questa settimana sono tornato a casa con almeno dodici nuove riviste. Di alcune potrei liberarmi anche subito, ma la gran parte è davvero interessante. Il punto è quale di queste avrò ancora voglia di guardare fra un anno. Penso che se ne pubblichino sempre. Volevo che nell’ultima pagina di “Issues” ce ne fosse una effettivamente in edicola mentre stavo scrivendo il libro. Volevo chiarire che, per quanto mi riguarda, non è una storia finita negli anni 60 o 90. È una storia di adesso, e continua ad andare avanti. •
«Almeno il 99 per cento delle foto di moda non esisterebbe al di fuori di un giornale. Moltissimo di ciò che mi interessa vive sulla pagina, non dietro a una cornice».