La Storia io non sono più qui,
Benedetta Barzini, la modella della prima copertina di Vogue Italia ha deciso di sparire. Perché? Lo racconta in un amorevole docufilm il figlio BENIAMINO BARRESE.
Esattamente a metà dello struggente “La scomparsa di mia madre” – il docufilm che Beniamino Barrese, 33 anni, ha realizzato su Benedetta Barzini, modella, attivista e scrittrice settantacinquenne –, c’è una scena particolarmente emblematica. Lei, pensosa, è seduta nel suo studio, mentre dalla tv arrivano le note di “Tu sei l’unica donna per me”. Unica anche per il regista? «Fin da quando ero piccolo non facevo che fotografarla, filmarla, raccontare la sua storia», racconta. «Ho sempre sentito molta responsabilità e tenerezza nei suoi confronti, e quando lei ha iniziato a dire con insistenza che voleva sparire, andare via, ho pensato che fosse arrivato il momento». Questo mese Barrese presenta il lungometraggio al Biografilm Festival di Bologna (7-17 giugno), dopo l’accoglienza positiva all’ultimo Sundance e prima della distribuzione nei cinema, anche americani, il prossimo ottobre. Documentare la vecchiaia senza finzioni, e testimoniare il pensiero di una donna che da molti anni si oppone ai modelli standard di bellezza e di femminilità propugnati dai giornali di moda e dalla pubblicità: questo è il cuore dell’opera, coraggiosa quanto la sua protagonista. Una madre che nel film rimprovera al figlio di «vivere nel regno dell’immagine», e alla fotografia di «essere una grande bugia, perché pietrifica le cose che hanno un limite».
“La scomparsa di mia madre” vive su un sostanziale paradosso: aiutare la sua protagonista a sparire filmandola e mostrandola...
In effetti è vero. Ma bisogna capire la genesi del progetto – iniziato quando, dopo sette anni passati a studiare cinema a Londra, ho voluto documentare le lezioni che mia madre Benedetta teneva alla Naba. In quell’occasione ho scoperto un’intellettuale vera, una filosofa. E anche se lei non voleva farsi riprendere, l’ho convinta dicendo che il film si sarebbe focalizzato solo sull’insegnamento. Poi la cosa si è evoluta, gradualmente. E lì è emerso il paradosso: per alcuni critici è un film che non dovrebbe esistere, perché il soggetto non vuole esserne parte, e il fatto che proprio io, il figlio, sia il regista lo rende fastidioso. In realtà è stato uno scambio: lei ha acconsentito alle riprese per non ferire me. Ha preferito ferire se stessa. È un atto d’amore. E di liberazione, perché ha capito che era l’unico modo per aiutarmi a staccarmi da lei.
C’è stata una catarsi, quindi, a montaggio finito?
No! (ride) Ma sicuramente sento meno l’aura e il mistero del suo personaggio – quello di una donna corteggiata da Robert Kennedy e Dalí, musa di Warhol, sorella di Giangiacomo Feltrinelli... Magari un giorno farò un biopic su di lei, per esorcizzare altri fantasmi!
Qual è il suo rapporto con le riviste di moda? Attraverso mia madre ho imparato a capirle. Oggi distinguo tra lavori commerciali, che mirano a vendere qualcosa spesso senza scrupoli, e il lavoro creativo che implica una ricerca personale. Detto ciò, tutti abbiamo delle contraddizioni, e sono queste a renderci umani.
Cosa ti aspetti presentando il film al pubblico italiano? Temo che possa non essere capito, perché è un’opera ibrida, sebbene i temi che tocca – il confronto con la madre, la vecchiaia, il bisogno di scardinare i diktat della bellezza – in fondo riguardano tutti.
È anche un bel manifesto contro il conformismo.
Lo spero. Per molto tempo le donne sono state le prime nemiche di loro stesse, perché si costringevano l’un l’altra dentro certi modelli. Oggi finalmente c’è più inclusività, ma potrebbe essere solo un trend. Sembrerà banale da dire: l’unica vera bellezza è l’autenticità. E quando crei una vera connessione con qualcuno, lo capisci.
«Mi interessano le cose che non si vedono», dice a un certo punto sua madre. E a lei?
Certamente. Non a caso le foto più belle sono quelle dove si percepisce l’anima del soggetto fotografato, perché senti che esprime quello che è veramente. •