la sindrome del mai abbastanza,
Mai abbastanza intelligente, mai abbastanza magra, né bella: così si è sempre sentita Genevieve Gaignard. Finché un giorno ha deciso di puntare su se stessa la macchina fotografica. Scoprendo che quella ragazza meticcia e plus-sized aveva molto da dire, e
Genevieve Gaignard ha 38 anni ed è considerata una delle artiste più interessanti della West Coast americana. La paragonano a Cindy Sherman per i mille volti, gli autoritratti e l’uso smodato di trucco e parrucche; a Carrie Mae Weems per l’attivismo nei confronti della comunità afroamericana. Lavora con media differenti: video, installazioni, collage e soprattutto fotografia. Fotografa se stessa, sempre. Ogni volta con abiti, pettinature e scenari diversi. Plus-sized, meticcia, un corpo morbido spesso inguainato in guêpière o skinny jeans: «Interpreto caricature femminili, stereotipi della nostra società. Costruisco veri e propri personaggi che indagano il modo in cui veniamo percepiti dagli altri». Che spesso, e inevitabilmente, non corrisponde al vero. Questione per lei cruciale. Sotto l’apparente immediatezza dei suoi scatti, infatti, emergono urgenze personali e profonde che indagano il rapporto con il proprio corpo, e i concetti di classe, razza, e soprattutto identità. Cresciuta nella working class di Orange, Massachusetts, da un padre di colore e da una madre bianca, Gaignard eredita la pelle della madre e non viene quindi mai riconosciuta come donna di colore, pur essendolo. Soffre una sorta di emarginazione, che lei chiama “invisibilità”: «Non riuscivo a identificarmi come nera, ero vista solamente come wasp. La gente mi etichettava sempre con qualcosa che non mi corrispondeva mai in pieno. Con le mie opere lavoro anche su questo: interpreto cliché della cultura afroamericana come di quella occidentale, mescolandoli, invertendoli. Uso me stessa come soggetto principale per sottolineare la mia esperienza come donna di razza mista». Gioca visivamente con i luoghi comuni per riflettere sulle scorciatoie del pensiero e mettere in discussione i giudizi che ci facciamo sulla gente: «Molto spesso non sappiamo nulla della storia di quella persona, del suo percorso»: un equivoco da lei vissuto varie volte. I suoi scatti sono una lotta per il proprio riconoscimento, e nascono dal confronto con alcuni modelli di riferimento, spesso doloroso: «Fin da piccola ho sofferto per non essere mai “abbastanza”. Non ero mai abbastanza intelligente, mai abbastanza magra, non ero bella abbastanza. Credo sia un atteggiamento che accomuna varie donne. Solo quando ho cominciato a fare arte ho deciso di affrontare le mie angosce. Ho puntato l’obiettivo della macchina fotografica su di me per indagare quel sentimento di insufficienza. E così, a un certo punto, ho iniziato ad amare la ragazza di quelle foto, proprio per quello che aveva da dire. In alcuni casi non mi riconosco neppure. Grazie ai travestimenti sono capace di calarmi visivamente in “altro da me”, e quindi non mi vedo più. Il mio è piuttosto un gesto di compassione messo in atto tramite gli altri». Una sorta di autocura, una terapia dolce studiata apposta per volersi più bene, e non la sola. «Mi circondo di un solido gruppo di amici, ci sosteniamo e celebriamo a vicenda: una parte importante di self-care. Come anche parlare dei propri sentimenti e delle insicurezze con un professionista. Spesso il problema è che non ci sentiamo ascoltati e una terapia è un modo salutare per alleviare questa sensazione. Andare da uno psicologo è una delle cose migliori che abbia mai fatto per me stessa. Essere umani è un duro lavoro». E si torna a parlare delle lotte adolescenziali con il peso. «C’è voluto un certo allenamento per acquisire sicurezza. I miei personaggi la ostentano, per mandare un messaggio. Fortunatamente ora il pubblico si è stancato dell’omologazione e vuole vedere più diversità. Abbiamo tutti gusti e istinti differenti. Ogni individuo incarna una
«Uso i miei personaggi per sfidare le aspettative che la società ci impone a livello di immagine. Caricature femminili che incarnano luoghi comuni».
sua propria forma di bellezza, ed è nostra responsabilità riconoscerla. Negli altri, come in noi stessi». Gaignard viene considerata spesso una body-activist, una militante che ha costruito ponti nell’associazione di corpi abbondanti e iperfemminilità. A questo proposito cita Lizzo, rapper e cantante americana sulla cresta dell’onda, che ha da poco posato per “Playboy”, e continua: «Con la mia arte voglio sfidare le aspettative che la società impone a livello di immagine femminile. Mi interessa l’aspetto performativo di una bellezza stereotipata che implora di essere decostruita». L’obiettivo è tornare alla vita reale, a una riflessione sulle apparenze che ingannano. Per questo Gaignard gioca con la recitazione, la possibilità di assumere maschere e identità diverse. Dietro all’ostensione di sé, dietro alla sovraesposizione, si annida invece l’impulso a nascondersi, a deidentificarsi. La propria immagine diventa oggetto di culto ripagando il narcisismo ferito dalle aspettative: «È ironico che le mie composizioni vengano percepite come perfette. Il mio intento è piuttosto quello di raggiungere qualcosa che non riesco a ottenere fisicamente. E in tutto questo processo, quello che mi affascina di più, rimangono le imperfezioni. Sempre». •