le mille e una identità,
Né miliardari e neppure terroristi: una rivista online indaga la cultura araba emergente e i suoi nuovi codici, andando oltre i luoghi comuni. Per dare voce a una generazione di creativi che ritrova l’orgoglio e smantella i cliché. Come qui racconta la su
Che sia Hoda Katebi, la blogger con lo hijab che tenta di parlare di moda alla Chicago Wgn-Tv e invece si sente chiedere degli armamenti nucleari in Iran; oppure la donna musulmana in burkini che a Nizza è costretta dalla polizia con le armi in pugno a svestirsi: la rappresentazione unidimensionale, stereotipata degli arabi (e dei musulmani) nei media è un problema di lunga data. «Gli arabi, sui principali canali di informazione, compaiono sotto forma di miliardari, terroristi, danzatrici del ventre e contrattatori chiassosi», ha scritto Jack Shaheen, professore libanese nato a Pittsburgh, che ha trascorso la vita a mettere a nudo i luoghi comuni sugli arabi che si vedono sul grande schermo.
Per quel che mi riguarda, arrivata all’età adulta nell’Inghilterra post 11 settembre, con genitori musulmani immigrati, quando si trattava della mia gente, sui media non vedevo che scene apocalittiche di paesi in macerie e terrorismo barbarico, oppure consumatori che si avventavano su qualsiasi bene di lusso fosse rivestito d’oro. Nulla che in qualche modo rappresentasse la mia esperienza o quella delle persone che conoscevo. La mia famiglia viene dalle montagne del Rif, la regione più settentrionale del Marocco a ridosso della costa mediterranea. La maggioranza della popolazione, in quei luoghi, è Amazigh (berbera), e non si ritiene araba. Da poco più di dieci anni, con il mio lavoro di autrice ed editor osservo in prima persona i cambiamenti che si verificano nel panorama mediatico, e quella di oggi è un’epoca in cui si abbonda nel celebrare l’identità e l’inclusività. Tutti – designer, editor, fotografi, scrittori e artisti – indossano fieramente le proprie origini etniche come talismani, rivendicando uguaglianza e diritto alla rappresentanza. Così, quando mi è stata offerta l’opportunità di creare una piattaforma che mi avrebbe aiutato a scavare meglio nella mia identità e a realizzare uno spazio sicuro in cui le voci più diverse potessero smantellare gli stereotipi negativi, non ho avuto dubbi. In questo modo è nata “Mille”. Il nome (francese) vuole sottolinearne l’impostazione, perché malgrado il termine onnicomprensivo “arabo”, usato per chiunque abbia origini mediorientali o nordafricane – senza tenere affatto in considerazione le innumerevoli fedi, razze, etnie e gli infiniti codici culturali che distinguono, per esempio, un libanese da un algerino –, non esiste una sola esperienza araba o un “mondo arabo”: ne esistono mille.
Lanciata online nel gennaio del 2018 in versione trilingue (inglese, francese e arabo), la rivista vuole dare visibilità ad aspetti del mondo arabo rimasti sempre nascosti. Dalla scoperta della risposta marocchina a David Lynch al Margiela dell’Oman, dalla cultura rave underground in Palestina all’analisi di cosa significa essere neri e arabi, “Mille” è il luogo dove si esplorano in modo critico e onesto la molteplicità e le idiosincrasie della nostra identità attraverso i prismi della moda, dell’arte, del beauty e degli stili di vita. Per una generazione che ha visto anno dopo anno aumentare i crimini commessi per odio dai musulmani, è urgente, ora più che mai, contrastare la retorica attuale e restituire ai giovani arabi un senso di orgoglio. Tutto il team di “Mille”, che include Sofia Guellaty, la nostra cofondatrice tunisina, Sarah Ben Romdhane, giovane creativa siriano-tunisina
nata a Parigi, Amina Kaabi, scrittrice tunisina cresciuta in Virginia; così come il nostro board, in cui figurano la modella italo-egiziana Elisa Sednaoui, Afef Jnifen e Saif Mahdhi, ex presidente dell’agenzia Next, tutti sono uniti dall’impegno a dare maggiore visibilità ai talenti del mondo arabo, a valorizzarne l’umanità. L’unico modo per compiere dei passi avanti è agire da specchio per la nostra comunità, e da finestra sulla nostra cultura.
Per gli arabi, che abitino nei paesi di origine o altrove, la migrazione è una parte consistente dell’esperienza. Spesso nasciamo già a cavallo fra due culture giustapposte e crescendo impariamo a muoverci con disinvoltura al loro interno. Per il fotografo Mous Lamrabat, collaboratore di “Mille” nato in Marocco e cresciuto in Belgio, l’orgoglio per le proprie radici non è sempre stato un sentimento naturale: «Non mi sentivo mai normale», dice, «perché non ero come gli altri, e io volevo solo essere normale». Ora però da adulto, e da artista, ha cominciato a considerare la sua identità come un dono prezioso. «A livello creativo siamo molto sottovalutati, ma adesso c’è una vague di artisti che creano cose formidabili e mi pare che il mondo lentamente cominci a rispettarli. Vorrei che l’Occidente e le nostre genti vedessero la nostra cultura in maniera nuova, bella e positiva. Qualsiasi cosa facciamo e ovunque viviamo, il nostro luogo di origine sarà sempre un magnete che ci riporta a sé».
«Anche la popolazione di Dubai è composta da un 80 per cento di stranieri», dice Maniu Jibril, designer nigeriano che lavora a Dubai e creatore di Wekafore, brand che coniuga la disco anni 70 dell’Africa occidentale con lo streetwear. «Siamo quasi nel 2020 e la gente ha ancora delle idee molto limitate su quello che, a suo parere, noi siamo. Certamente non siamo una cosa sola ma tante diverse, ed è questo a renderci belli. Non ci sarà alcuna crescita né sviluppo culturale se la gente continua a ignorare il potere e la bellezza della collaborazione multiculturale».
Nel Medio Oriente e nel Nordafrica – dove il 63 per cento della popolazione è costituito da imprenditori under 35 che si sono fatti da sé –, gli stereotipi rappresentati nei media servono ad alimentare il fuoco di un cambiamento che abbraccia un’onda di creativi consapevoli della società in cui vivono. Le stesse donne ritenute oppresse (dagli uomini e dalla religione) perché indossavano il velo, ora conducono i loro show su Netflix e sfilano per Fendi e Marc Jacobs. Persino i giovani arabi combattono una battaglia tutta in salita contro i cliché imposti alla mascolinità, aprendo a loro volta la strada a una nuova generazione di designer gender-fluid e attivisti lgbtqi. I media possono essere strumenti potenti, e “Mille”, nello smantellare stereotipi, vuole offrire ai giovani arabi uno spazio sicuro, nel quale non si strumentalizzi in senso politico ogni loro mossa e ogni loro creazione, permettendo così al mondo di vedere realmente cosa sono e cosa fanno. •
«A livello creativo siamo molto sottovalutati, ma adesso c’è una vague di artisti che creano cose davvero formidabili e mi pare che il mondo lentamente cominci a rispettarli».