VOGUE (Italy)

Un Bramino Mi Disse

Questa storia inizia tanti anni fa con una profezia: morirai nel 2019. Da allora l’autore gira il mondo alla scoperta di luoghi e modi con cui gli uomini sfidano la fine. Ecco cosa ha visto.

- testo e foto di ALBERTOGIU­LIANI

Tutto è cominciato vent’anni fa, quando un bramino in India mi lesse la mano. Tra le pieghe del mio palmo rivolto al cielo, trovò molte gioie ma vide anche la morte. Prematura e violenta, che dovrebbe cogliermi in un giorno caldo di quest’anno. In quella stanza umida, affacciata sulle acque del fiume Yamuna, il bramino riempì la sua predizione di dettagli e mi suggerì di indossare uno zaffiro giallo all’indice della mano destra, perché nel momento della fine mi avrebbe aiutato. Aggiunse anche di seguire un uomo del futuro, che mi avrebbe indicato la giusta via. Pochi giorni dopo quell’incontro, in una gioielleri­a di Chandni Chowk a Delhi, comprai uno zaffiro giallo e misi l’anello di nozze alla mano del mio destino. Ma amando la vita più della sua logica, ripresi il cammino e cercai di dimenticar­e ogni sua parola. Avevo solo ventitré anni e a quell’età la vita sembra sempliceme­nte eterna.

Nel tempo, non mancai di osservare che alcune cose predette si erano avverate. Ma nelle profezie possiamo trovare solo quello che ci aspettiamo, difficilme­nte quello che ci aspetta, perciò continuavo a ripetermi che andava tutto bene, compresa la donna che stava al mio fianco. Secondo il bramino, infatti, la madre di mio figlio avrebbe dovuto essere una conoscenza d’infanzia. Invece io e Francesca ci eravamo incontrati per la prima volta a Parigi, molto tempo dopo quel viaggio in

India, e per anni questo dettaglio mi tenne al sicuro. Finché la scorsa estate, tra le cianfrusag­lie ammucchiat­e in soffitta, trovai un album di fotografie. Aveva la copertina di plastica marrone, e con la calligrafi­a elementare di mia madre c’era scritto “Livigno 1984”. Conteneva le immagini di una vacanza invernale nella quale vinsi la mia prima gara di sci. Avevo nove anni e sul podio di un ristorante coperto di moquette, stringevo al petto una medaglia dorata. Vicino a me un uomo reggeva un microfono e ai miei piedi, tra altri bambini, c’era Francesca. I capelli raccolti con un cerchietto, la gonna a scacchi e l’espression­e distratta. Aveva solo cinque anni. Anche lei era in quel ristorante di montagna.

Sul momento pensai più ai casi dell’amore che a quelli della morte, ma iniziai a cercare nella memoria i dettagli della predizione e a credere che le parole del bramino mi riguardass­ero davvero. Decisi così di seguire il suo consiglio e mi misi alla ricerca di un uomo del futuro.

Ho cominciato il mio viaggio dal luogo più lontano che mi venisse in mente, nella fantasia e nella geografia, perché in me cresceva il bisogno di fuggire. Sono volato fino alle Hawaii per incontrare gli astronauti della Nasa che si addestrava­no a vivere su Marte e da lì a Phoenix e poi Detroit, per conoscere i padri della crioconser­vazione umana. Sono sceso sottoterra, nei bunker dove migliaia di persone cercano rifugio dall’apocalisse e sotto i ghiacci delle Svalbard, dove i governi di tutto il mondo hanno nascosto i semi delle nostre colture per salvarli da una catastrofe globale. In Giappone ho incontrato i creatori degli umanoidi, al Polo Nord gli scienziati che studiano il cambiament­o climatico e in Corea quelli che clonano qualsiasi essere vivente. Inseguendo le tracce del futuro sono passato dall’immensità del cosmo all’infinitezz­a delle molecole e alla fine del viaggio mi sono ritrovato in Cina, tra le colline della penisola di Tai Pang, in un luogo dove l’essere umano si sostituisc­e a Dio annientand­o ogni credo.

Tra le ombre delle foreste di bambù e le vecchie colonie della Rivoluzion­e Culturale, sorgeva una struttura invisibile ai satelliti, che aveva la forma di una piramide Maya affogata nella terra. Era la China National Genebank, la più grande organizzaz­ione al mondo per lo studio del Dna. Dieci piani di cemento grezzo e vetro, cinquantam­ila metri quadrati di laboratori dove centinaia di macchine mappavano senza sosta il genoma di ogni creatura. Lo archiviava­no in super

computer alti fino al soffitto mentre cinquemila ricercator­i, giocando con le sequenze della vita, riscriveva­no il destino dell’essere umano. Questo luogo che ancora conservava il sapore socialista era il chilometro zero dell’evoluzione, il tempio della nuova Era o l’Arca degli uomini, come la chiamavano da queste parti, perché aveva il compito di mettere in salvo tutti noi, e la Cina, dalle tempeste delle sfide globali.

«La nostra missione è creare un futuro migliore», mi spiegò il professore Xun Xu, scienziato di fama mondiale e vicepresid­ente di questa struttura. «Grazie ai nostri studi conoscerem­o un giorno senza malattie genetiche e cureremo il tumore come fosse un’influenza», disse, descrivend­o il futuro con la serenità di chi già l’ha vissuto. «L’homo sapiens sta entrando in un nuovo tempo evolutivo. Qui nasce l’Era Transomica, dove l’evoluzione la decidiamo noi umani».

Seguii i passi del professore in uno spazio immacolato e cieco, senza odori né vita. Non importava se fuori fosse giorno o notte, qui il tempo non serviva più. «L’uomo ha percorso distanze infinite alla scoperta dei continenti e dello spazio. È arrivato alla fine della geografia, per comprender­e che l’unico futuro lo dobbiamo cercare dentro di noi», mi disse il professor Xu. Costeggian­do le vetrate affacciate sulla valle, il professore raccontava di nuove specie animali, di cereali che non esistevano in natura e delle Città Agricole del Futuro. Torri multipiano dove crescere carni, pesci e verdure in un sistema chiuso, che non comunica con le risorse naturali di un Pianeta ormai contaminat­o. Le stavano costruendo tra le case di Shenzhen, la metropoli che produce il 90% della tecnologia mondiale. «Le speranze del nostro domani si nascondono nelle sole quattro lettere del Dna», concluse.

«Se potremo scegliere come cambiare il nostro destino, allora diventerem­o immortali?», azzardai io. «Forse. Per ora possiamo solo cercare di porre rimedio al nostro presente, correggerc­i sperando di diventare migliori. Pur sapendo che a una causa corrispond­e sempre un effetto, e che non sempre sappiamo controllar­lo», rispose, lasciando scivolare lo sguardo sull’enorme mammut che troneggiav­a nei corridoi della China National Genebank. Nella cultura orientale simboleggi­ava l’eternità e la madre terra, ma qui manteneva vivo il monito dell’estinzione. Superando laboratori pieni di luce e bracci robotici che si muovevano col rumore di un soffio, il professor Xu mi condusse nel suo studio. Unici arredi una poltrona verde e una scrivania, posti ai piedi di una parete curva. Correva per una ventina di metri, alta e lucida, coperta di segni e algoritmi, formule chimiche e numeri infinitesi­mali, scritti a mano fino a sfiorare il soffitto. Nella galassia della genomica questo muro rappresent­ava il nuovo asse di rotazione terrestre e quei segni erano le leggi della nuova genesi. Arrampican­dosi su una scala, il professore annotava ogni giorno su questa lavagna i progressi e le sconfitte delle sue ricerche.

«Sembra che il destino sia solo nelle nostre mani», dissi sottovoce davanti allo sconcerto di quella vista. «È così da sempre», replicò il professore. «Nelle scelte di ogni giorno, nei progetti, in ogni piccola azione; volontà e destino corrono paralleli come binari di un treno. Siamo programmat­i per sopravvive­re, questa è l’unica verità», aggiunse, spiegandom­i che la scienza possedeva già le conoscenze per modificare la vita e l’essere umano, che tra questi muri si faceva nudo, eterno nelle memorie digitali e, pertanto, anche replicabil­e. «La scienza dà concretezz­a e rigore alle aspirazion­i umane, le rende chiare, finite, gli dà un nome. Ma il destino di ciascuno di noi è qualcosa di più complicato della chimica delle molecole. Perché nella ragione, possiamo scegliere solo quello che conosciamo e lasciamo che sia la paura a controllar­e i nostri limiti. Per questo non dobbiamo porre confini alla ricerca e alla curiosità umana. Per salvarci possiamo solo andare avanti».

In questo luogo ignoto alle mappe, la scienza correva più veloce del pensiero umano e sulla frontiera nella quale il professor Xu mi aveva portato non mi restava altro che l’istinto. Smarrito, come su un trampolino proteso nel buio, decisi di non proseguire oltre. Da Hong Kong presi un volo per l’India, per cercare il bramino della mia lontana profezia. Volevo ricomincia­re da capo, dal momento dove per me ragione e destino avevano iniziato a separarsi, in un luogo in cui ancora ci si sentiva umani. ____________________________

“L’uomo ha percorso distanze infinite alla scoperta dei continenti e dello spazio. È arrivato alla fine della geografia per comprender­e che l’unico futuro lo dobbiamo cercare dentro di noi”.

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 ??  ?? La scultura di un mammut a grandezza naturale all’ingresso della China National Genebank: nella tradizione orientale simboleggi­a l’eternità, qui diventa monito dell’estinzione.
La scultura di un mammut a grandezza naturale all’ingresso della China National Genebank: nella tradizione orientale simboleggi­a l’eternità, qui diventa monito dell’estinzione.
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