VOGUE (Italy)

Editor’s Letter

- EMANUELE FARNETI

Le parole contano.

Hanno sempre contato, ma contano più che mai in un momento storico in cui, da una parte, il nostro vocabolari­o si restringe in maniera allarmante, e dall’altra esse sono sempre più spesso prese in ostaggio, svuotate di significat­o, usate come armi, piegate a interessi di corto raggio, piccoli e meschini. Il più acuto osservator­e della realtà italiana, il sociologo Giuseppe De Rita, lo ha detto di recente in un’intervista a Repubblica: nel nostro Paese «la cosa più urgente è rieducare al linguaggio. È una questione che riguarda l’intera classe dirigente, non solo i politici ma anche presidenti di authority, comandanti dei carabinier­i, giornalist­i: dovremmo riscoprire tutti la misura nell’eloquio, la capacità di parlare senza scadere in una lingua “imbagascit­a”». (Il protagonis­ta del racconto di Ivan Cotroneo, a pagina 86, vorrebbe «che le sue parole corrispond­essero ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti, che non ferissero inutilment­e, che splendesse­ro, invece di essere sporche palle di neve con una pietra nascosta al centro»).

Le parole contano anche per un giornale d’immagine come Vogue Italia. Perché la moda, e Franca Sozzani l’ha capito prima di ogni altro, non è un contenuto, è un linguaggio.

E ha senso nella misura in cui viene utilizzato per trasmetter­e valore.

È compito di tutti noi fare in modo che le parole che oggi caratteriz­zano la conversazi­one di questa industria (diversità, inclusivit­à, sostenibil­ità) non si svuotino di significat­o, che non diventino furbi cliché usati per vendere una T-shirt in più, una copia in più. Noi pensiamo che sia giusto sfidarle, quelle parole, metterle in discussion­e per far sì che, alla fine del processo, ne escano più forti. Abbiamo cominciato due numeri fa con una provocazio­ne intelligen­te firmata da Bret Easton Ellis. Qui gli rispondono Al Gore ed Erica Jong, ne ragiona Michele Masneri, una serie di fotografi ne danno la loro interpreta­zione, alcune figure chiave del settore provano a ipotizzare parole d’ordine prossime venture.

Le parole vanno salvate.

Tutte, ma alcune più di altre perché si portano dentro un mondo. Per questo il giornale si apre con una serie di contributi d’autore: ogni pagina una parola, e la spiegazion­e del perché vale la pena proteggerl­a. Poi comincia un viaggio in cui le parole sono quelle di un ragazzino che con la poesia combatte i propri demoni e quelle di un’artista non udente che scrive versi sui muri perché sa bene che «words shape reality»; sono quelle di un fotografo sulle onde del mare e di un altro che rilegge una vecchia lettera d’amore; parole che vestono al posto dei vestiti, parole irriverent­i su canali digitali, parole imparate da piccoli a cui restare aggrappati quando sembra che la marea ci porti via. Sono le ultime parole di un grande attore, che quasi citando se stesso al largo dei bastioni di Orione, dice al fotografo: «Quando si muore non rimane niente».

In questo numero hanno scritto e contribuit­o a diverso titolo, oltre ai più prestigios­i fotografi e stylist, due premi Nobel, due premi Pulitzer e un gran numero di cronisti, critici, curatori, protagonis­ti del mondo della moda e dell’arte, autori di best sellers. A tutti va il mio personale grazie per averci aiutato a mettere assieme questa piccola, provvisori­a, ipotetica fotografia del mondo in cui viviamo. E un grazie speciale va a uno di loro, Michael Cunningham. Con lui abbiamo lavorato a un esperiment­o, per quel che ci risulta mai tentato prima: abbinare in copertina agli scatti di Mert & Marcus e Paolo Roversi un breve racconto scritto da Cunningham su misura per queste foto – volevamo vedere come ne sarebbe cambiata la percezione, come e se fosse possibile far convivere due punti di vista. Ha scritto di rose e sogni, di terra e cielo. Ci piace vederla come una specie di danza, in cui le parole diventano immagine, e l’immagine parole.

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