VOGUE (Italy)

Famiglia

- STEFANIA AUCI

Qualche tempo fa, mio figlio mi ha detto che la nostra è una delle poche famiglie tradiziona­li della sua classe. La cosa mi ha fatto riflettere. Quanto è complicato oggi, essere famiglia? Quanta voglia abbiamo di metterci in gioco, di rinunciare a una parte della nostra sovranità affettiva e personale per creare qualcosa di nuovo?

Io sono nata e vissuta in una famigghia del Sud, insomma, dove nessuno può considerar­si al sicuro dall’invadenza di chi ti sta accanto, in cui l’affetto passa attraverso il cibo, le raccomanda­zioni su come ti comporti, i continui e soffocanti “sta’ attenta”.

A dirla tutta, la mia famiglia, all’inizio, era più un gineceo, poiché gli unici maschi erano mio padre e il gatto. Un posto fisico e del cuore parecchio incasinato, con una tipica madre onnipresen­te e ansiosa e due sorelle maggiori che mi hanno fatto da apripista. I maschi sono arrivati con la famiglia di mio marito: un discreto plotone di zii e cugini, circa una sessantina.

Ma l’essenza non è cambiata: la famiglia per me ha sempre avuto i colori e i rumori di un mondo in cui custodisci il passato e aspetti il futuro, in cui la vita quotidiana non è mai del tutto individual­e e in cui matrimoni, nascite, comunioni e funerali sono un modo per ricordarsi che non sei mai solo, anche se vorresti. Siamo andati avanti e continuiam­o a farlo attraverso le storie condivise, le memorie, le fotografie, gli odori degli armadi e il profumo dei cibi. E questo universo affettivo continua con gli amici e, dato che per una persona del Sud non esiste nulla di più importante del legame di sangue, se hai una persona cui vuoi bene non dici che è “un amico fraterno”, ma che è “mio fratello”. Non importa che non sia legato a te per jus sanguinis: tu gli riconosci quest’appartenen­za. Io, poi, attribuisc­o un preciso posto in famiglia anche ai miei gatti, tanto per aumentare la confusione e l’amore. Mi rendo conto che questa mia visione di famiglia può sembrare antiquata. Per me però non è così. Ricordarci da dove veniamo, delle nostre radici, di chi – nel bene o nel male – ci ha reso ciò che siamo ci dà consapevol­ezza. Se riusciamo anche a fare pace con certi aspetti del nostro passato, ci permette anche di essere liberi.

Perché la famiglia è un posto che noi abbiamo costruito, dove, da bambini, ci hanno insegnato che è importante voler bene all’altro, che non esiste solo il mio e il tuo, ma anche il nostro. Che è bello condivider­e, anche soltanto chiacchier­e, pettegolez­zi, segreti, e pazienza se nel giro di un’ora non sono più tali. Perché è lì che abbiamo imparato a ridere e a farlo insieme con gli altri. Dopo un litigio – anche furioso – si finisce sempre per tornare: è vero, certe parole ti scavano dentro solchi che non se ne andranno più, eppure si va avanti, perché le cose che uniscono pesano sempre di più di quelle che dividono. E, anche quando il dolore è insanabile, ci si stringe tutti insieme per sentire meno il vuoto lasciato da qualcuno. Una ti mette davanti un piatto, obbligando­ti a mangiare, un altro ancora ti accoglie con un abbraccio. Non c’è bisogno di chiedere null’altro.

So benissimo che “essere famiglia” è sempre stato complicato. Oggi, forse, ancora di più. Nella mia esperienza di insegnante, entro in contatto con famiglie disfunzion­ali, anaffettiv­e, “difficili”. Ma un conto è affrontare queste realtà e un altro è cercare di polverizza­re l’istituzion­e della famiglia, come se non avesse più ragione di esistere. E invece ce l’ha eccome, e io sono ferocement­e convinta che oggi ci sia un gran bisogno di avere un posto del cuore in cui poter tornare.

Non ci credete? Se venite a trovarmi, vi convinciam­o del contrario. Io, mio marito, le mie nipoti, le mie due sorelle, cugini e cugine, tutti i miei zii e zie. Naturalmen­te davanti a un piatto di cuscùsu alla trapanisa. __________

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