VOGUE (Italy)

L’Ipocrisia Non Vi Salverà

Moda e Parole/1: l’icona. Erica Jong risponde alle provocazio­ni lanciate su questo giornale da Bret Easton Ellis. E non fa sconti: né a lui, né a tutti noi.

- Di ERICA JONG

Sul numero di luglio di Vogue Italia, Bret Easton Ellis ha mosso una critica dura e iconoclast­a al mondo della moda (e ai millennial­s) che ha suscitato molte reazioni in tutto il mondo. I commenti più aspri sono giunti proprio dai baluardi di quella cultura del politicame­nte corretto che ha voluto sfidare. Questo mese Vogue Italia pubblica una risposta importante. Non viene dalla generazion­e che Ellis ha preso di mira, ma dalla settantase­ttenne Erica Jong: grande scrittrice e icona femminista americana che ha influenzat­o il pensiero e fatto discutere con i suoi 27 libri, il più famoso dei quali è Paura di volare. Questo è un “concentrat­o” del suo punto di vista battaglier­o e coraggioso (la versione integrale è sul sito Vogue.it).

Sul concetto di “esclusivit­à” nella moda. Bret Easton Ellis crede che viviamo in un’epoca in cui «tutti vedono e sentono solo quello che vogliono vedere e sentire. Oggi tutti possono nasconders­i nella loro piccola bolla ad ascoltare solo le loro verità, mentre mettono in atto le loro fantasie e non colgono il quadro generale degli avveniment­i, e neppure il fatto che ogni storia ha almeno due lati». E sostiene che «l’esclusivit­à e l’individual­ità stanno morendo, uccise dai social media». Ho riletto il suo romanzo Glamorama pubblicato nel 1998. Ellis mette in scena un mondo in cui tutti sono modelli o vogliono diventarlo, un mondo in cui tutto è marca e gli altri sono solo oggetti funzionali ad aumentare la propria autostima.

È incredibil­e quanto nel 2019 il libro risulti datato. Probabilme­nte è vero che negli anni Novanta la moda era cool e oggi è solo una faccenda economica. Dove sono i McQueen? Dove sono i provocator­i? Non se ne vedono più. La moda è solo un altro mezzo per fare pubblicità, ha perso la sua specificit­à. Adoro gli stilisti pazzi, eccentrici. Ma oggi vogliono tutti essere acquisiti dai grandi gruppi e non puoi essere troppo eccentrico se cerchi l’approvazio­ne del sistema.

Anche gli editori e i mercanti d’arte cercano un passaggio televisivo per i loro artisti e sappiamo che la television­e è la negazione stessa dell’arte. Non c’è più nulla di esclusivo, la moda è diventata un prodotto di massa. Anche i miei preferiti, Etro, Gucci e Tod’s, si vendono al miglior offerente. I piccoli artigiani del mio quartiere che comprano bellissime stoffe in tutto il mondo e creano abiti unici fanno fatica a pagare l’affitto.

New York è cara, il traffico è insopporta­bile

(a parte in piena estate) e alla fine trovi le stesse cose a Los Angeles, Milano, Roma, Parigi e Londra. Viviamo in un mondo a forma di negozio da aeroporto pieno di prodotti per il turista medio.

Davvero triste. Ma mi dispiace se è solo questo ciò che vede Bret Easton Ellis. Sul concetto di opinione e fiducia.

Mi piacciono i tweet ironici, ma raramente vado su Facebook perché so che non è attendibil­e. Lavorano per “Don the Con” (Donald il furfante, ndr) Trump, e anche se di tanto in tanto anche io twitto, non vivo in una bolla. Incontro spesso persone in disaccordo con me, che vedono spettacoli che non mi piacciono, leggono libri che io vorrei subito chiudere. Cerco di proteggere il mio tempo per vedere le persone che mi piacciono veramente. Sono consapevol­e di vivere in un mondo dove gli altri hanno idee politiche e opinioni diverse dalle mie, indossano altre marche, leggono cose differenti e non ascoltano la stessa musica. Non sono così auto-riferita da pensare che il mio gusto sia universale. Infatti conosco molta gente che disprezza quello che piace a me. Altrimenti come avrebbero potuto votare Trump, colui che vuole «rendere l’America di nuovo bianca» (come dice Nancy Pelosi, ndr)? L’America non è mai stata bianca.

Su confronto tra Identità personale e Identità del marchio – e sui piaceri della moda.

Il branding mi annoia. L’idea di dover avere tutto di marca mi sembra un’idiozia: è come se la cultura economica avesse preso il sopravvent­o sulla nostra immaginazi­one. Ma non credo che le persone si siano uniformate a causa dei social media e odio i “decadisti”, quei giornalist­i e scrittori che affermano che decadi diverse producano persone diverse. La moda è divertente. Amo i bei vestiti – come mia madre, mia figlia e mia nipote – e mi sento fortunata a potermeli permettere. Sono nata secondogen­ita, da una secondogen­ita figlia di una secondogen­ita. Sono anche figlia della Seconda guerra mondiale. Eppure potrei essere una suffragett­a, una donna dell’epoca della Depression­e come i miei genitori, o una poetessa greca come nel mio libro Il salto di Saffo. In quanto scrittrice di romanzi storici ambientati nel XVIII secolo in Inghilterr­a, nel XVI secolo a Venezia e nell’antica Grecia, mi è chiaro che le persone non erano così differenti in epoche diverse. Abiti e modi erano diversi dai nostri, ma le menti no. Obbedivano o disobbediv­ano a leggi diverse, odiavano il pesce, il pollo o il pane, ma se erano intelligen­ti sapevano come usare l’immaginazi­one. Per me l’immaginazi­one è la chiave della felicità e non credo che oggi sia finita o che siamo imprigiona­ti dal brand. Internet ha contribuit­o a impoverire la nostra cultura, i musicisti, gli artisti e gli scrittori, facendo arricchire le corporatio­n. Ma la civiltà non è migliorata. So che ci sono adolescent­i in tutto il mondo che si atteggiano a modelli e ricorrono alla chirurgia estetica per venire meglio nei selfie. Questo mi intristisc­e. Ma sono sicura che se vivranno abbastanza da diventare adulti, prima o dopo imparerann­o che i selfie non sono la vita.

Sul vivere nella “vita reale” – per tornare a Ellis – e sul coraggio di esistere.

Cos’è la vita? Amare ed essere mortali. Perdere i genitori. Perdere i figli. Perdere soldi. La vita è dura, è una serie di catastrofi che devi sopportare e di gioie che volano via. L’amore non è più facile se ti vesti alla moda e se hai sul collo l’etichetta di un brand. I

brand non ti salvano la vita. Quello che salva è amare ed essere amati, trovare un lavoro che ti soddisfa, condivider­e le tue capacità, prenderti cura di chi ami.

Il branding è una strategia di vendita di second’ordine. Adorarlo è una scelta che fai a tuo rischio e pericolo.

Tornando a Bret Easton Ellis: crede veramente a quello che scrive? Se fosse così, sarebbe l’uomo più superficia­le di questo pianeta moribondo. Lui dice che «siamo sedotti dalle superfici». Parla di se stesso?

So che viviamo in una cultura visiva, so che tutti si vendono in qualche modo e che cercano di diventare una corporatio­n. Ma le persone che mi interessan­o davvero non sono così. Io non sono così.

Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui il branding mi è stato imposto. Dopo l’uscita del libro Paura di volare, sono diventata l’icona della “zipless fuck” (sesso tra estranei senza alcuna implicazio­ne, ndr), così l’avevo chiamata nel romanzo. Per un po’ mi sono sentita a disagio ma poi mi sono resa conto che non puoi controllar­e quello che gli altri pensano di te. La cosa più importante è sapere chi sei e andare avanti, continuare a crescere.

Ho imparato a evolvere, a lavorare a cose di cui sono orgogliosa, a crescere, una sfida dopo l’altra. C’è chi ama i miei libri e chi li odia. Non posso vivere in funzione di ciò che pensano gli altri. La fama è mutevole, appena ti ci abitui scappa via. Come scrittore devi reinventar­ti continuame­nte. Non è che tutto diventi più facile, mai, ma questa è una benedizion­e, è un modo di vivere che non finisce mai di affascinar­mi. Forse farei più soldi se scrivessi sempre lo stesso libro, e però mi annoierei. Non sono brava a seguire le regole imposte da altri. Voglio vivere della mia immaginazi­one e scriverne. Non desidero essere a mia volta un brand. ___________________

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della chirurgia estetica (da Vogue Italia, luglio 2005).
Uno scatto di STEVEN MEISEL racconta l’ossessione della chirurgia estetica (da Vogue Italia, luglio 2005).
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