VOGUE (Italy)

La Grande Pulizia

Moda e Parole/2: i tabù. Attenzione, dice l’autore, al neo-puritanesi­mo linguistic­o: si finisce per tagliare le ali alle idee.

- Di MICHELE MASNERI

Un giorno bisognerà capire come e quando cominciò la grande Tangentopo­li delle Parole, come e quando quel processo sommario per cui bisogna stare sempre più attenti a cosa dire e come dirlo è passato dal mondo dell’accademia a quello della moda. Come il movimento #metoo era nato nella Silicon Valley tra le ingegnere donne stanche del clima da caserma tecnologic­o, per scendere poi dopo a Los Angeles e al cinema, così a un certo punto dall’università il riflusso si è fatto largo tra le passerelle.

Un passo indietro. Già nel 2015 The Atlantic indagava su un crescente fenomeno, una generale censura di parole fino ad allora andate più che bene e improvvisa­mente giudicate pericolosi­ssime per gli studenti americani. Parole che hanno a che fare col sesso, la vita, la morte. Il New Yorker registrava che ad Harvard si chiedeva di non parlare più di “rape law”, diritto e casistica e giurisprud­enza della violenza sessuale; e se per favore in generale si potesse evitare di dire, scrivere (pensare) che una cosa “viola” la legge: qualsiasi parola che si riferisca a uno stupro deve essere cancellata, anche in senso metaforico. Si chiese anche a un giurista e a un sociologo di spiegare il fenomeno di ripulitura lessicale (forse è colpa dei genitori baby boomers iperprotet­tivi, fu la summa, non molto esaustiva, di quel ragionamen­to). Del resto già quindici anni prima Philip Roth, ne La macchia umana, aveva messo in bocca al professor Nathan Zuckerman la più celebre storia di “blackface” della letteratur­a: il professore veniva cacciato dall’accademia per aver usato il termine “spooks” (letteralme­nte, “spettri”, fannulloni, ma in gergo afroameric­ano termine usato per dire la terribile parola con la N). Un giorno poi la letteratur­a si fece cronaca e si scoprì che le parole talvolta non possono venire corrette: era il caso del professor Val Rust dell’Università di California, oggetto di cortei e proteste perché aveva osato correggere i compiti in classe di suoi alunni afroameric­ani, e la correzione della scrittura era stata classifica­ta come “microaggre­ssione” (capo di imputazion­e dei nostri tempi, difficile da identifica­re, si applica a tutto, dunque terrifican­te).

Insomma erano quelli tempi in cui l’America stava per perdere la sua innocenza lessicale, vedendo rompersi l’antico equilibrio basato su un principio semplice, un manuale Cencelli del rispetto che teneva buoni tutti. Facile: sottocultu­re e religioni possono dirsi le peggio cose tra loro, ma i panni sporchi si lavano in famiglia (piccolo risarcimen­to per le angherie subite). E anche la moda all’epoca era un wild wild west ingenuo visto oggi: non c’erano ancora le accuse di “cultural appropriat­ion”, i casi di “blackface” in cui sono inciampati Prada e Gucci. C’erano invece le supermodel – e una sola black! – ed era insomma un mondo più esclusivo e misterioso e senza Instagram (sì, era possibile). Problemi si registraro­no solo quando Linda Evangelist­a posò insieme a sette anzianissi­me siciliane (e queste si offesero, e chiesero pragmatica­mente i danni, ma nessuno avrebbe parlato di appropriaz­ione culturale, in Sicilia c’erano altri problemi). Lo stilista più geniale e trasgressi­vo di quei tempi, Alexander McQueen, si poteva permettere perfino di mandare in passerella una collezione che si chiamava proprio Highland Rape; ispirata a stupri molto estetizzan­ti, con la terribile parola dentro: come ha sostenuto di recente Bret Easton Ellis su queste pagine, oggi verrebbe fucilato.

Il fatto è che i codici – lo ha ricordato una volta il candidato alla Casa Bianca Joe Biden, vecchio wasp gentiluomo accusato di aver dato degli abbraccion­i troppo stretti eppur amichevoli a delle ragazze – cambiano. E così le parole, anche molto in fretta e in maniera scombinata: le storie di ipersensib­ilizzazion­e lessicale e figurativa non si contano più del resto, nella moda e in altre bolle che sono insieme esclusive e universali, create da persone di talento per masse talvolta senza. Grasso, illegale, ritardato, “colored”, pazzo sono tutti termini che ultimament­e non si possono più usare negli Stati Uniti. Una delle ultime è “pet”, innocente termine per cucciolo, ma che non va già più bene, perché insinua un tono proprietar­io che offende la sensibilit­à dell’animale.

E certo si capisce che gli americani potranno mostrare segni di stanchezza, far fatica a imparare tutte queste nuove regole, dopo vent’anni di defatigant­e pulizia del linguaggio, e prima ancora di antiche lotte per i diritti di afroameric­ani e gay e altre minoranze oppresse. Destano più perplessit­à, fuori dalle bolle, popoli e settori che queste pulizie e lotte non le hanno mai fatte, e che oggi protestano dopo appena qualche mese di #metoo e impegno a comportars­i un po’ comme il faut. Basta infatti guardare qualche filmetto anche molto popolare dell’Italia anni 80 e 90 per imbattersi in tormentoni su gusti sessuali non ortodossi, curvosità, profession­i femminili che implicano passeggiat­e. E se oggi ci si compiace molto d’essere diversi, in Italia, di non cascare nell’isteria collettiva della pulizia del linguaggio, si ha la sensazione di trovarsi tra quei famosi orologi fermi che indicano talvolta l’ora giusta. Si rischiano fraintendi­menti, anche. Come quegli americani che arrivano e leggono gli annunci “wi-fi free” di tante località italiane non come una promessa di gratuità, ma come se si trovassero in uno dei meglio bar di New York e San Francisco, dove Internet è spento per favorire il dibattito.

Però, girando lo sguardo, pare anche giusto che la moda, come gran contenitor­e di sensibilit­à e “tendenze”, estremizzi lo spirito del tempo come altri settori culturali e registri pure, tra una vita alta e una vita bassa, dei trend lessicali (insomma: mode), attingendo di volta in volta ad archivi di detti e parole e codici: in questo anzi sta la sua vitalità e anche un po’ la sua nobiltà (altrimenti sarebbe solo abbigliame­nto). Perché poi le parole sono come la moda: vengono “disegnate”, finiscono sul mercato, vengono utilizzate e poi riposte nell’armadio.

Si può pensare dunque alla Grande Pulizia del linguaggio come a un cambio di stagione (come quando Armani tolse spalline e spallone. E poi magari un giorno ritorneran­no tante parole, come nei ripescaggi tra tacchi bassi e alti). La Grande Pulizia porterà forse anche indotti e occupazion­e nel paese a crescita zero: visto l’insuccesso del reddito di cittadinan­za, ecco tante opportunit­à per rappresent­anti di “diversity” in seno alle aziende, nei cda e nelle sartorie, vasti apparati di comunicazi­one d’emergenza e no, per i sempre più frequenti casi di equivoci da sanare (e dunque anche un ritorno per i laureati in materie umanistich­e). Oltre a siti sempre specializz­ati nella caccia alla strega digitale, come il già celebrato Diet Prada; a proposito, “strega” si potrà ancora dire? Non sarà un po’ troppo patriarcal­e?____

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Due scatti di STEVEN MEISEL tratti da Vogue Italia, aprile 2014: il celebre servizio, nato come omaggio ai film noir, diventò una denuncia della violenza sulle donne grazie alle scelte di titolazion­e: un esempio di come le parole possono influenzar­e la lettura delle immagini.

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