Qualcosa Rimane
Intanto a Milano, risponde il critico, il genius loci resiste reticente, senza tacchi, lontano da mode e sguardi indiscreti, elegantissimo.
Milano non è Parigi, e nemmeno Catania. Una sciura non è la madame, men che mai una signura. Il genius loci è cosa seria, che le abitudini vestimentarie svelano in tutta evidenza almeno quanto architetture e colori. Lo è ancor più nell’Italia eternamente composita, mai unitaria, tutta province e campanili e in fondo terribilmente conformista pur nella mancanza di regole condivise. Venia mi sia concessa se adesso passo, inevitabilmente, alla prima persona. Il fatto è che da terrone emigrato sono fornito di doppia visione: comparo sempre la milanesità stilosa all’orgoglio di guardaroba siculo, e nelle insanabili affinità e divergenze tra visioni della femmina, del suo ruolo e apparire, accanto al maschio e non, leggo i tratti distintivi di due identità forse complementari, certamente antitetiche, invero ricche di nuance. Ci sono secoli e secoli di modi di fare e di essere, di dominazioni politiche e culturali, di influenze e aneliti sintetizzati nella scelta di un cappottino beige con la camicetta di seta, o degli orecchini di corallo con una vestaglietta nera, alla faccia del global thinking. Si percepisce sempre che scelte apparentemente istintive, o contrarie, sono il frutto di sedimentazioni lunghe, di movimenti ampi. Anche se poi tutto si riduce all’orlo di una gonna, all’altezza di un tac
co, a un modo ineffabile di negarsi o offrirsi allo sguardo del passante, o di guardarsi nello specchio. Da siculo, sono abituato a una certa sensualità, a un qual ingioiellato esibizionismo, a fisicità seccagne o voluttuose ma sempre proterve e presenti, imperiose direi, alla voglia di sedurre rivelando parecchio – se non il corpo, custodito come dietro una gelosia, almeno un sembiante della sua carnalità voluttuosa. Quaggiù – scrivo nell’oblio ibleo, perché le cose da lontano si vedono meglio – non ci sono più le donne in lutto eterno, ma anche quando c’erano il lutto non era mai rifiuto. Invito, piuttosto. E ci sono i tacchi, condizione ontologica ancor prima che fisica.
A Milano, colgo invece per ogni dove un contegno distante, una freddezza fremente, un apparente distacco che confina con l’alterigia, o magari è timidezza e ancor meglio understatement, gli stessi di lussureggianti giardini nascosti dietro facciate austere, altro cliché dell’iconografia cittadina – ci sono anche giù al sud a dire il vero, ma le facciate sono barocche e sgarrupate, e le ringhiere panciute. Non ci sono tacchi, al massimo tacchetti. Sia chiaro, lo stile milanese è molto più che la sciura con la cofana laccata, le ballerine lustre, il tailleur impeccabile, il foulard al collo e, somma delizia di visioni sempre più rare, i collant color gesso. Quello è incrollabile luogo comune; altre generazioni di donne, con altre visioni di sé e altre idee di carriera e femminilità, popolano la scena ormai da tempo, in tutt’altre maniere abbigliate. Viene in mente Antonia Dell’Atte, meridionale importata ma milanesissima nell’algido splendore, in versione top manager spalluta con il fascio di quotidiani in mano e lo sguardo ad maiora. Quel che inevitabilmente si palesa di meneghino, a ogni estensione del timbro vocalico, è una certa asciuttezza espressiva; anche al picco del deboscio – una vena di paisley postsessantottino è ancora viva in città – a Milano lo sbraco non è minimamente concesso e contemplato, pena il peccato mortale di volgarità. È la capacità di fermarsi un attimo prima della débâcle, di astenersi invece che di darsi, a far la milanese – o così mi pare. È la propensione per palette neutre che si impastano con la gamma cromatica del luogo, evitando di attrarre attenzioni come un garrulo pennu
to, attività che invece al sud è sempre in pieno svolgimento anche quando si finge in ogni modo di voler scomparire. Lo stile milanese è eloquente, ma reticente. Si pensa a donne di un passato modernissimo, le cui emule ideali ancora si vedono vestite suppergiù nello stesso modo, con il double, le camicie di popeline e i colori freddi, non certo più in Montenapoleone e dintorni, ormai terra di conquista delle orde chiassose e spendaccione dei nuovi ricchi, ma in corso Magenta, in via Vincenzo Monti e Leopardi, riserva di pastura di una eleganza che ha in Camilla Cederna, con la blusa accollata e la giacchetta impeccabile, in Pupi Solari, morbidamente austera, e nella signora Mila Schön con il vestitino svelto svelto, tre capisaldi imprescindibili.
Quest’ultima, avendo a che fare con la moda, trasformò il suddetto stile in una proposta commerciale, ma lo chic milanese è affare di modo, non di mode o marchi, anche se certo chi ha sede in Galleria Vittorio Emanuele o in via Borgonuovo ha una particolare affinità, ricambiata, con la sobrietà senza fronzoli dell’esprit locale, come prima Biki e Monica Bolzoni. Esprit che non è certo appannaggio esclusivo di signore viste chez Marchesi, Cucchi o Sant Ambroeus. Come l’Italia è paese di campanili, così Milano è città di quartieri, ciascuno con la sua nuance inconfondibile nel vestire. Tra Brera e le Cinque Vie, per esempio, la milanesità si priva di carrierismi mollemente sartoriali per diventare, grossomodo, libera e ribelle, ma certo ancor borghese. È qui che alla sciura succede la contestatrice, ormai adulta anche lei se dal Sessantotto è in fondo passato mezzo secolo, tutta veli preraffelliti e stampe mescolate con occhio infallibile. È a queste donne, o alle giovani rampolle di solido lignaggio che portano il blazer con un certo laissez-faire e fanno le alternative all’Isola, che guardano avidi i forestieri, smaniosi di afferrare lo spirito elusivo del local style. Non è più però frequentando il Bar Basso o Sissi, culle del radical chic, che si afferra davvero l’essenza autentica dello stile milanese. Va cercata con il lumicino, perché in giro ci sono troppe impersonatrici, anche autoctone, oggi che lo stile è diventato messa in scena permanente. L’understatement che è sinonimo di milanesità pur al picco delle fiamme – viene in mente Valentina Cortese, meravigliosamente fiorita – è un affare di naturalezza, anche se poi tutto è calcolatissimo. Difficile da raccontare, l’autenticità si percepisce. Una milanese, insomma, non è l’influencer smaniosa d’attenzioni, che pure vorrebbe essere chic come una sciura o giù di lì. L’impasse attuale è presto detta, ma il vero stile milanese resiste reticente, senza tacchi, lontano da mode e sguardi indiscreti, elegantissimo. ____