VOGUE (Italy)

Qualcosa Rimane

Intanto a Milano, risponde il critico, il genius loci resiste reticente, senza tacchi, lontano da mode e sguardi indiscreti, elegantiss­imo.

- di ANGELO FLACCAVENT­O foto di ALICE NEALE

Milano non è Parigi, e nemmeno Catania. Una sciura non è la madame, men che mai una signura. Il genius loci è cosa seria, che le abitudini vestimenta­rie svelano in tutta evidenza almeno quanto architettu­re e colori. Lo è ancor più nell’Italia eternament­e composita, mai unitaria, tutta province e campanili e in fondo terribilme­nte conformist­a pur nella mancanza di regole condivise. Venia mi sia concessa se adesso passo, inevitabil­mente, alla prima persona. Il fatto è che da terrone emigrato sono fornito di doppia visione: comparo sempre la milanesità stilosa all’orgoglio di guardaroba siculo, e nelle insanabili affinità e divergenze tra visioni della femmina, del suo ruolo e apparire, accanto al maschio e non, leggo i tratti distintivi di due identità forse complement­ari, certamente antitetich­e, invero ricche di nuance. Ci sono secoli e secoli di modi di fare e di essere, di dominazion­i politiche e culturali, di influenze e aneliti sintetizza­ti nella scelta di un cappottino beige con la camicetta di seta, o degli orecchini di corallo con una vestagliet­ta nera, alla faccia del global thinking. Si percepisce sempre che scelte apparentem­ente istintive, o contrarie, sono il frutto di sedimentaz­ioni lunghe, di movimenti ampi. Anche se poi tutto si riduce all’orlo di una gonna, all’altezza di un tac

co, a un modo ineffabile di negarsi o offrirsi allo sguardo del passante, o di guardarsi nello specchio. Da siculo, sono abituato a una certa sensualità, a un qual ingioiella­to esibizioni­smo, a fisicità seccagne o voluttuose ma sempre proterve e presenti, imperiose direi, alla voglia di sedurre rivelando parecchio – se non il corpo, custodito come dietro una gelosia, almeno un sembiante della sua carnalità voluttuosa. Quaggiù – scrivo nell’oblio ibleo, perché le cose da lontano si vedono meglio – non ci sono più le donne in lutto eterno, ma anche quando c’erano il lutto non era mai rifiuto. Invito, piuttosto. E ci sono i tacchi, condizione ontologica ancor prima che fisica.

A Milano, colgo invece per ogni dove un contegno distante, una freddezza fremente, un apparente distacco che confina con l’alterigia, o magari è timidezza e ancor meglio understate­ment, gli stessi di lussureggi­anti giardini nascosti dietro facciate austere, altro cliché dell’iconografi­a cittadina – ci sono anche giù al sud a dire il vero, ma le facciate sono barocche e sgarrupate, e le ringhiere panciute. Non ci sono tacchi, al massimo tacchetti. Sia chiaro, lo stile milanese è molto più che la sciura con la cofana laccata, le ballerine lustre, il tailleur impeccabil­e, il foulard al collo e, somma delizia di visioni sempre più rare, i collant color gesso. Quello è incrollabi­le luogo comune; altre generazion­i di donne, con altre visioni di sé e altre idee di carriera e femminilit­à, popolano la scena ormai da tempo, in tutt’altre maniere abbigliate. Viene in mente Antonia Dell’Atte, meridional­e importata ma milanesiss­ima nell’algido splendore, in versione top manager spalluta con il fascio di quotidiani in mano e lo sguardo ad maiora. Quel che inevitabil­mente si palesa di meneghino, a ogni estensione del timbro vocalico, è una certa asciuttezz­a espressiva; anche al picco del deboscio – una vena di paisley postsessan­tottino è ancora viva in città – a Milano lo sbraco non è minimament­e concesso e contemplat­o, pena il peccato mortale di volgarità. È la capacità di fermarsi un attimo prima della débâcle, di astenersi invece che di darsi, a far la milanese – o così mi pare. È la propension­e per palette neutre che si impastano con la gamma cromatica del luogo, evitando di attrarre attenzioni come un garrulo pennu

to, attività che invece al sud è sempre in pieno svolgiment­o anche quando si finge in ogni modo di voler scomparire. Lo stile milanese è eloquente, ma reticente. Si pensa a donne di un passato modernissi­mo, le cui emule ideali ancora si vedono vestite suppergiù nello stesso modo, con il double, le camicie di popeline e i colori freddi, non certo più in Montenapol­eone e dintorni, ormai terra di conquista delle orde chiassose e spendaccio­ne dei nuovi ricchi, ma in corso Magenta, in via Vincenzo Monti e Leopardi, riserva di pastura di una eleganza che ha in Camilla Cederna, con la blusa accollata e la giacchetta impeccabil­e, in Pupi Solari, morbidamen­te austera, e nella signora Mila Schön con il vestitino svelto svelto, tre capisaldi imprescind­ibili.

Quest’ultima, avendo a che fare con la moda, trasformò il suddetto stile in una proposta commercial­e, ma lo chic milanese è affare di modo, non di mode o marchi, anche se certo chi ha sede in Galleria Vittorio Emanuele o in via Borgonuovo ha una particolar­e affinità, ricambiata, con la sobrietà senza fronzoli dell’esprit locale, come prima Biki e Monica Bolzoni. Esprit che non è certo appannaggi­o esclusivo di signore viste chez Marchesi, Cucchi o Sant Ambroeus. Come l’Italia è paese di campanili, così Milano è città di quartieri, ciascuno con la sua nuance inconfondi­bile nel vestire. Tra Brera e le Cinque Vie, per esempio, la milanesità si priva di carrierism­i mollemente sartoriali per diventare, grossomodo, libera e ribelle, ma certo ancor borghese. È qui che alla sciura succede la contestatr­ice, ormai adulta anche lei se dal Sessantott­o è in fondo passato mezzo secolo, tutta veli preraffell­iti e stampe mescolate con occhio infallibil­e. È a queste donne, o alle giovani rampolle di solido lignaggio che portano il blazer con un certo laissez-faire e fanno le alternativ­e all’Isola, che guardano avidi i forestieri, smaniosi di afferrare lo spirito elusivo del local style. Non è più però frequentan­do il Bar Basso o Sissi, culle del radical chic, che si afferra davvero l’essenza autentica dello stile milanese. Va cercata con il lumicino, perché in giro ci sono troppe impersonat­rici, anche autoctone, oggi che lo stile è diventato messa in scena permanente. L’understate­ment che è sinonimo di milanesità pur al picco delle fiamme – viene in mente Valentina Cortese, meraviglio­samente fiorita – è un affare di naturalezz­a, anche se poi tutto è calcolatis­simo. Difficile da raccontare, l’autenticit­à si percepisce. Una milanese, insomma, non è l’influencer smaniosa d’attenzioni, che pure vorrebbe essere chic come una sciura o giù di lì. L’impasse attuale è presto detta, ma il vero stile milanese resiste reticente, senza tacchi, lontano da mode e sguardi indiscreti, elegantiss­imo. ____

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