VOGUE (Italy)

Capriccio

I desideri del cuore, l’idea di giovinezza e vecchiaia... Si intitola “Cercami” il nuovo romanzo di André Aciman, il sequel di “Chiamami col tuo nome” di cui in queste pagine Vogue Italia pubblica un estratto in anteprima mondiale.

- ANDRÉ ACIMAN

Pur non conoscendo­si, uscirono insieme dall’ascensore. Lei aveva i tacchi, lui un paio di mocassini da vela. Salendo verso il mio piano, avevano scoperto di essere diretti allo stesso appartamen­to e addirittur­a di avere una conoscenza in comune, un certo Clive di cui io ignoravo l’esistenza. Mi colpì come fossero arrivati a lui, che stranezza, ma alla fine perché voler trovare qualcosa di strano in una serata che già di per sé prometteva di essere bizzarra, poiché le due persone che desideravo disperatam­ente vedere alla mia festa di addio erano arrivate insieme? Lui si presentò con il suo fidanzato di molto più vecchio, lei con il marito, ma ancora non riuscivo a credere che, dopo avere passato mesi a desiderare di avvicinarm­i di più a loro, alla fine li avevo entrambi sotto il mio tetto gli ultimi giorni che avevo da trascorrer­e in città. C’erano tanti invitati, ma degli altri ospiti non mi importava: il compagno di lui, il marito di lei, l’istruttore di yoga, l’amica che Micol insisteva per farmi conoscere, la coppia che avevo conosciuto l’autunno scorso a una conferenza sugli espatriati ebrei del Terzo Reich, il peculiare agopunturi­sta di 10H, il docente di logica pazzoide del mio dipartimen­to insieme alla moglie vegana svitata e infine la dolce dottoressa Chaudhuri del Mt. Sinai, che era stata felice di reinventar­e il concetto di finger food per soddisfare i presenti. A un certo punto stappammo il prosecco, e tutti brindarono al nostro ritorno nel New Hampshire. Nell’appartamen­to già sgomberato riecheggia­vano discorsi, e qualche specializz­ando bevve alla mia salute con affetto e senso dell’umorismo, tra un continuo andirivien­i di gente.

I due che contavano, però, si trattenner­o. Addirittur­a, mentre le persone gironzolav­ano per l’appartamen­to vuoto, ci fu un momento in cui lei uscì sul balcone e io la seguii, poi ci seguì anche lui, ed entrambi si appoggiaro­no alla balaustra con i calici in mano, parlando di questo Clive, lei alla mia sinistra, lui alla mia destra. Allora appoggiai il bicchiere a terra e li cinsi entrambi con un braccio all’altezza della vita, un gesto amichevole, spensierat­o, in assoluta buonafede. Poi mi staccai e mi appoggiai anch’io alla balaustra, tutti e tre spalla contro spalla a osservare il sole al tramonto.

Nessuno dei due si allontanò, rimasero entrambi appoggiati a me. Ci avevo messo mesi per portarli qui. Era il nostro attimo di silenzio sul balcone affacciato sull’Hudson in questa serata di inizio novembre insolitame­nte calda.

Il dipartimen­to di Paul all’università si trovava sullo stesso piano del mio, ma non avevamo impegni accademici in comune. A giudicare dal suo aspetto, immaginavo fosse uno specializz­ando prossimo a terminare la tesi o un neo dottorato o un ricercator­e in attesa di un contratto fisso. Condividev­amo la stessa rampa di scale e lo stesso piano, di tanto in tanto ci incrociava­mo in qualche grossa riunione di facoltà, o più di frequente nello Starbucks a due isolati di distanza lungo la Broadway, di solito nel tardo pomeriggio prima che iniziasser­o i seminari di specializz­azione. Ci eravamo notati anche altre volte nella stessa tavola fredda di là della strada; ritrovando­ci nello stesso bagno dopo pranzo per lavarci i denti, non potevamo fare a meno di sorridere. Incrociars­i diretti verso il bagno degli uomini con il dentifrici­o già pronto sullo spazzolino divenne una permanente fonte di sorrisi. A quanto sembrava, nessuno dei due si portava il tubetto del dentifrici­o in bagno. «Aquafresh?», mi chiese un giorno e io risposi di sì. Come faceva a saperlo? Per via delle strisce, mi spiegò. E così, cogliendo al volo il suo tentativo di attaccare bottone, gli domandai che marca usava lui. «Anice. Tom’s of Maine.» Avrei dovuto immaginarl­o. Sì, era proprio il tipo da Tom’s of Maine. Con ogni probabilit­à usava anche il deodorante e il sapone della stessa marca e altri prodotti di nicchia che si acquistava­no per lo più in negozi biologici. A volte, dopo averlo osservato sciacquars­i i denti, volevo sapere che gusto avesse l’anice nella sua bocca dopo l’insalata.

Non stavamo flirtando ma, a quanto sembrava, tra noi fluttuava qualcosa di implicito. Il nostro fragile ponte galleggian­te si costruiva su timide cortesie pomeridian­e e poi veniva smantellat­o in tutta fretta la mattina seguente quando, se ci capitava di salire la stessa rampa di scale, quasi nemmeno ci salutavamo. Io volevo qualcosa, e sospettavo anche lui, ma non ero mai sicuro di avere interpreta­to la situazione in modo abbastanza chiaro da introdurre il discorso o spingermi oltre. Durante una delle nostre brevi conversazi­oni, ne approfitta­i per dirgli che il mio anno sabbatico stava per concluders­i e che presto sarei tornato nel New Hampshire.

[…]

Se per caso era libero e aveva piacere di venire alla mia festicciol­a di addio nel nostro appartamen­to appena sgomberato – ormai restavano solo quattro sedie, gli spiegai – sarebbe stato il benvenuto. Allora? Ma certo, rispose. La sua risposta fu così immediata che ebbi la tentazione di non credergli.

Poi c’era Erica. Facevamo lo stesso corso di yoga, e a volte anche lei arrivava insolitame­nte presto, alle sei del mattino; a volte invece ci presentava­mo tardissimo, alle sei di sera. Certi giorni addirittur­a ci andavamo in entrambi gli orari, quasi ci stessimo cercando ma non speravamo di incontrarc­i due volte lo stesso giorno. A lei piaceva mettersi nello stesso angolino, e io mi posizionav­o sempre a una trentina

di centimetri di distanza. Anche in sua assenza, stendevo il tappetino a circa un metro e venti dalla parete. All’inizio perché mi piaceva quel punto, e poi mi inventavo modi astuti per tenergliel­o libero. Non frequentav­amo le lezioni regolarmen­te, però, dunque passarono secoli prima che ci scambiassi­mo anche solo un veloce cenno di saluto con la testa. A volte, già disteso con gli occhi chiusi, all’improvviso sentivo qualcuno posare a terra un tappetino accanto a me. Già sapevo chi era senza bisogno di guardare. Avevo imparato a riconoscer­ne i passi furtivi e timidi quando si avvicinava al nostro angolino a piedi nudi, il rumore del suo respiro, il modo in cui si schiariva la voce dopo essersi sdraiata. Non faceva segreto di essere sorpresa e al contempo contenta di vedermi. Io, invece, ci andavo più cauto e fingevo di essere doppiament­e sbalordito, lo sguardo stralunato che diceva Oh, ma sei proprio tu?

Stavo pensando di invitare il nostro insegnante alla mia festa di addio, dissi. A lei e a suo marito andava di unirsi a noi? Sarebbe magnifico, rispose.

Eccoli qui entrambi, dunque. Per essere novembre faceva caldo; le portefines­tre erano spalancate, e nella stanza aleggiava una brezza che risaliva dal fiume, le candele tremolavan­o sui davanzali. Ci sembrava di essere in un film, intenti a trascorrer­e un incantevol­e sabato sera, di quelli in cui nulla va storto.

[…]

Benché fosse la mia festa di addio, ero pur sempre il padrone di casa. Mi assicurai che il prosecco continuass­e a scorrere a fiumi, e sembravano tutti rilassati. Lo si capiva da come loro due se ne stavano appoggiati alla parete a chiacchier­are; quando li raggiungev­o di tanto in tanto, sentivo che formavamo un gruppo a parte. Se qualcun altro avesse abbandonat­o la stanza, non ce ne saremmo accorti e avremmo continuato a parlare di questo o quel libro, di questo film o di quell’opera teatrale, passando da un argomento all’altro senza mai nemmeno una divergenza d’opinione.

[…]

A un certo punto lui mi carezzò la schiena, e poi anche lei, con delicatezz­a, quasi gradissero anche la consistenz­a del mio maglione e volessero toccarlo di nuovo. Era una serata incredibil­e, stavamo bevendo, i nostri cellulari non avevano suonato nemmeno una volta e ben presto sarebbe arrivato il dessert della dottoressa Chaudhuri. La festa doveva concluders­i alle otto e mezzo, ma quell’ora era passata da un pezzo e, a quanto sembrava, nessuno aveva intenzione di andarsene. Di tanto in tanto lanciavo un’occhiata furtiva a Micol, come a dire Tutto bene da quelle parti? cui seguiva un suo veloce cenno del capo a indicare Sì, e lì da te? Benissimo, rispondevo io. Eravamo una squadra perfetta, proprio il motivo che ci aveva tenuto insieme. Penso sia per questo che avevamo sempre saputo di essere una bella coppia. Lavoro di squadra, sì. E passione, a volte.

E ’sti due? mi fece capire inclinando la testa con fare inquisitor­io, riferendos­i ai giovani ospiti che non aveva mai visto. Te lo spiego dopo, le risposi con un cenno. Aveva l’aria tesa e un filo sospettosa. Conoscevo quello sguardo guastafest­e che diceva Tu non me la racconti giusta. […]

E se Erica e Paul si fossero piaciuti in un altro senso inaspettat­o – che poi magari così inaspettat­o non era?

Chissà, magari di riflesso mi avrebbe eccitato. La libido accetta pagamenti in valuta di ogni genere, e provare piacere di riflesso presenta un tasso di cambio fuoriborsa considerat­o abbastanza affidabile da risultare veritiero. Nessuno è mai andato in bancarotta prendendo in prestito il piacere altrui. Si va in bancarotta solo quando non si vuole nessuno.

[…]

«Se solo sapeste quanto sono semplici le cose che desidero…». «Tipo?», mi domandò lei, quasi troppo diretta, come se fosse ansiosa di cogliermi sul fatto a parlare a vanvera o a raccontare balle. «Me ne vengono in mente un paio». «Eddai, allora, spara», continuò lei in tono di sfida, senza accorgersi che aveva parlato troppo in fretta e che la mia risposta, chiarament­e in attesa sulla punta della lingua, non coincideva affatto con quanto si aspettava. «Forse non vuole rispondere», intervenne lui, notando la mia esitazione. «Forse sì, invece», risposi io. Di nuovo un mesto sorriso balenò sulle labbra di lei. «Forse no.» E così adesso lo sa, lo sa di sicuro. Mi resi conto che la stavo mettendo a disagio. Questo però, e lo sapevo per esperienza, era il momento in cui di solito si poneva l’audace domanda, e a volte non ce n’era nemmeno bisogno, perché la risposta poteva essere solo sì. Lei, invece, era nervosa. «E comunque i nostri sono perlopiù bisogni immaginari, giusto?», dissi, anche stavolta nel tentativo di addolcire le mie parole per concederle una via di fuga nel caso in cui ne stesse cercando una invano. «E alcuni dei nostri desideri più intensi alla fine risultano per noi più significat­ivi se restano irrealizza­ti – non pensate?».

«Non credo di avere mai aspettato abbastanza da sapere che cosa sia un desiderio prolungato». Paul scoppiò a ridere.

«Io sì», rispose lei.

Li guardai, e loro fecero altrettant­o. Mi piacevano i momenti di imba

razzo come questi. A volte mi bastava favorirli e non stroncarli subito sul nascere. La tensione, però, aumentava, e lei si affrettò a dire qualcosa, qualsiasi cosa, a ulteriore conferma che avesse intuito quanto evitavo di esplicitar­e: «Ci sarà pur qualcuno che ti ha ferito o lasciato delle cicatrici, ne sono certa».

«Sì», risposi. «Alcune persone ci lasciano sotto un treno, devastati». Ci riflettei un istante. «Nel mio caso, benché fosse colpa mia, alla fine sono io quello che non si è mai ripreso».

«Lei sì, invece?».

Ebbi un attimo di esitazione. «Lui», corressi.

«Dove?».

«In Italia».

«In Italia, naturalmen­te. Laggiù è tutto diverso», commentò lei. Arguta, pensai.

Erica e Paul.

Beh, sì, andavano d’accordo. Li lasciai chiacchier­are e raggiunsi gli altri ospiti.

[…]

Mi guardai intorno e vidi che l’appartamen­to era vuoto come quando io e Micol ci eravamo entrati lo scorso agosto. Un tavolo, quattro sedie, una credenza, librerie vuote, un divano sfondato, un letto, armadi con appese innumerevo­li grucce dondolanti come uccelli impagliati con le ali spiegate e quel desolato pianoforte a coda che né io né lei avevamo mai nemmeno toccato ed era ancora ricoperto di mucchi di locandine che prometteva­mo di riportare nel New Hampshire pur sapendo che non l’avremmo mai fatto.

[…]

Alla fine, e proprio come avevo previsto, i due ricomincia­rono a parlare di Clive il giornalist­a, di cui non ricordavan­o il cognome. Paul indossava un’ampia camicia bianca di lino a maniche corte aperta sul petto. Quando sollevò il gomito e si portò la mano alla testa nel tentativo di ricordarsi il cognome di Clive, gli vidi la pelle del braccio fino alla peluria sotto l’ascella. Probabile che lì sotto si rada, pensai. Mi piacevano i suoi polsi scintillan­ti, l’abbronzatu­ra omogenea. Mi vedevo già a trascorrer­e il resto della serata cercando di intercetta­rlo con la mano sulla testa la prossima volta che avesse cercato di ricordarsi il nome di qualcuno.

Di tanto in tanto lo beccavo a scambiarsi una rapida occhiata elusiva con il suo fidanzato all’estremità opposta della stanza. Collusione e solidariet­à – c’era qualcosa di dolce nel modo in cui sembravano cercarsi. Erica era venuta indossando una morbida blusa celeste. Riuscivo a non fissarle il seno perché il profilo era abbastanza impercetti­bile da non risultare provocante, ma sapevo che quando la guardavo se ne accorgeva. L’avevo sempre vista vestita da yoga. Ero attratto dalle sue sopraccigl­ia scure e dagli occhioni color nocciola, che non si limitavano a fissarti ma volevano qualcosa e poi si soffermava­no su di te come se si aspettasse­ro una risposta, mentre il tuo muto sguardo perso nel vuoto confermava invece la tua incapacità di rispondere. Al contempo, però, non volevano nulla da te; mostravano la stessa totale familiarit­à di chi ti conosce e cerca di ricordare dove vi siete incontrati, e l’accenno di dileggio che si coglieva nel suo sguardo era il suo modo di dirti che non la stavi affatto aiutando perché era consapevol­e che tu avevi capito tutto pur fingendo altrimenti.

[…]

Nel frattempo, Micol e l’insegnante di yoga decisero di uscire sul balcone per accendersi una sigaretta. Lui la faceva ridere. Mi piaceva sentirla ridere; lei ride di rado – noi ridiamo di rado.

[…]

Qualcuno aveva aperto il pianoforte e stava suonando un pezzo che veniva attribuito a Bach, lo riconobbi all’istante. Quando tornai dentro, gli invitati si erano radunati attorno al piano ad ascoltare ciò che avrei dovuto immaginare, pur con riluttanza, stava suonando Paul. Rimasi pietrifica­to un momento, forse perché non me l’aspettavo. I tappeti li avevamo già spediti e adesso il suono usciva di gran lunga più cristallin­o e corposo, e riecheggia­va nell’appartamen­to vuoto, quasi stesse suonando in un’immensa basilica deserta. Perché non sapevo che sarebbe stato tentato da quella reliquia di un pianoforte o che avrebbe suonato un pezzo che non sentivo da anni? Continuò per qualche minuto, e io volevo solo andare dietro di lui e tenergli la testa e baciarlo sulla nuca e chiedergli di suonarlo di nuovo, ti prego, suonalo ancora.

A quanto sembrava, nessuno conosceva quel brano e, quando Paul ebbe terminato, nella stanza calò un rispettoso silenzio. Alla fine il suo fidanzato si aprì un varco tra i presenti e con delicatezz­a gli posò una mano sulla spalla, probabilme­nte per chiedergli di smetterla, solo che all’improvviso Paul eseguì un pezzo di Schnittke che fece ridere tutti. Non conoscevan­o nemmeno questo, ma risero di nuovo quando subito dopo interpretò una folle versione di Bohemian Rhapsody.

A metà esecuzione, avevo deciso di sedermi sul rivestimen­to di metallo che copriva uno dei caloriferi sotto un davanzale, ed Erica venne a sedersi accanto a me, in silenzio, come un gatto che cerca di accoc

colarsi in un angolino sul caminetto senza disturbare o far cadere le suppellett­ili. Si limitò a guardarsi in giro alla ricerca del marito e nel frattempo mi appoggiò il gomito destro sulla spalla. Lui era in piedi all’estremità opposta della stanza con il bicchiere di vino tra le mani, l’aria imbarazzat­a. Gli sorrise. Lui annuì. Pensai a loro. Dopo essersi girata a guardare il pianista, però, non spostò il braccio. Era consapevol­e di ciò che stava facendo.

[…]

Il fidanzato di Paul gli disse di smetterla perché presto sarebbero dovuti andare via. «Quando inizia, non la finisce più, e allora tocca a me fare il prepotente guastafest­e». A quel punto, mi alzai e raggiunsi Paul al piano, lo cinsi con un braccio e dissi che avevo riconosciu­to l’Arioso di Bach e che non avevo idea l’avrebbe suonato. «Nemmeno io», rispose, il suo stupore al contempo disarmante, candido e fiducioso. Era contento che avessi riconosciu­to il Capriccio di Bach. «Lo compose “Sopra la lontananza del fratello dilettissi­mo”. Tu stai per partire, dunque non mi pare del tutto fuori luogo. Se vuoi, te lo suono ancora».

Che dolce, pensai.

«È perché stai per partire», ripeté, e lo sentirono tutti; l’umanità nel suo tono di voce mi fece nascere qualcosa nel profondo che non potevo rivelare o esprimere tra tanti convenuti.

E così, di nuovo, suonò l’Arioso. Chiunque notò che lo stava suonando per me, e a spezzarmi il cuore era la consapevol­ezza che la parte più terribile di congedi e partenze è la quasi certezza di non rivedersi più, e di sicuro lo sapeva anche lui. Ignorava, invece, e del resto non avrebbe potuto saperlo, che questo stesso Arioso l’avevano già suonato per me una ventina d’anni prima, e anche allora ero io che stavo per partire.

Senti che cosa sta suonando? chiesi all’unica persona assente quella sera, ma non per me.

Sì, lo sento.

E sai che ho vissuto male in questi anni, lo sai bene.

Lo so. Anch’io, però.

Che bella musica suonavi sempre per me…

Era un piacere.

Non l’hai dimenticat­o, allora.

Certo che no.

E mentre Paul suonava e io fissavo il suo volto e non riuscivo a distoglier­e lo sguardo da quegli occhi che a loro volta mi fissavano con tale grazia e tenerezza incontroll­ate che le sentivo fin nelle viscere, sapevo che in quel preciso istante si stava dipanando anche qualche arcano e accattivan­te discorso su com’era stata la mia vita, e magari era ancora così o forse non lo sarebbe mai stata, e la scelta dipendeva da me e dalla tastiera del pianoforte.

Paul aveva appena finito con l’Arioso di Bach, e subito dopo spiegò che aveva deciso di suonare un Preludio corale nella trascrizio­ne di Samuil Feinberg. «Meno di cinque minuti, promesso», disse, rivolgendo­si al suo compagno. «Questo minuscolo Preludio corale, però», commentò interrompe­ndo la musica per poi riprenderl­a, «può cambiarti la vita. La mia la cambia ogni volta che lo suono, o almeno credo». Stava parlando con me?

Come faceva a sapere della mia vita?

Sapeva, però, e io volevo che sapesse.

[…]

Magari intendeva questo, invece: Se la musica non ti cambia, mio caro amico, dovrebbe ricordarti almeno un qualcosa che è profondame­nte tuo ma di cui con ogni probabilit­à hai perso le tracce, benché non sia mai svanito del tutto, e che, se evocato dalle note giuste, risponde ancora, come uno spirito risvegliat­o con dolcezza da un prolungato torpore grazie al tocco azzeccato di un dito e al silenzio azzeccato tra le note. Se vuoi, te lo suono ancora. Qualcuno aveva pronunciat­o parole simili due decenni prima: Questo è Bach come l’ho trascritto io. Mentre guardavo Erica seduta accanto a me sul rivestimen­to del calorifero e Paul al piano, volevo che anche le loro vite cambiasser­o grazie a stasera, grazie alla musica, grazie a me. O forse non volevo altro che mi riportasse­ro indietro qualcosa dal mio passato, perché era il passato, o qualcosa di simile al passato, tipo il ricordo, o forse non proprio il ricordo, ma qualcosa a vari livelli e strati più in profondità, come l’invisibile filigrana della vita che ancora non riuscivo a cogliere. Poi, di nuovo, la sua voce. È me che stai cercando, vero? La musica stasera rievoca me.

Guardai loro due e capii che erano ignari di tutto. Anche io. Intuivo che il ponte tra noi tre era destinato a restare fragile e che dopo stasera sarebbe stato smantellat­o e portato a valle dalla corrente, e che l’amicizia e il buonumore, favoriti dal prosecco, dalla musica e dai finger food della dottoressa Chaudhuri, sarebbero svaniti nel nulla.

[…]

Invece, mentre il Preludio corale colmava la stanza e cresceva d’intensità, la mia mente vagò altrove, come sempre accade quando alzo un po’ il gomito e sento un pianoforte solcare un oceano e mari e anni fino

a un vecchio Steinway suonato da una persona che stasera vagava in questo spoglio salotto come uno spirito evocato da Bach per ricordarmi questo: Siamo sempre gli stessi, non ci siamo allontanat­i. Così mi parlava sempre lui in certi momenti, Siamo sempre gli stessi, non ci siamo persi, i lineamenti alterati da un languore beffardo. L’aveva quasi detto cinque anni fa, quando era venuto a trovarmi nel New England. Ogni volta cerco di ricordargl­i che non ha nessun motivo per perdonarmi. Lui, invece, scoppia in una risata irriverent­e, zittisce le mie proteste e, mai arrabbiato, sorride, si leva la camicia, mi si siede in grembo con i pantalonci­ni corti, le cosce a cavalcioni sulle mie e le braccia strette intorno alla mia vita, mentre io cerco di concentrar­mi sulla musica e sulla donna che mi sta accanto, e sollevando il viso verso di me, quasi fosse sul punto di baciarmi sulle labbra, sussurra, Che sciocco, ci vogliono due di loro per fare me. Posso essere uomo e donna, oppure tutt’e due, perché tu per me sei stato entrambi. Cercami, Oliver. Cercami. È venuto a trovarmi già diverse volte, ma mai così, mai come stasera. Parlami, ti prego, parlami ancora, vorrei dirgli. Potrei, se mi concedessi di farlo, avvicinarm­i a lui con parole caute e con passi titubanti. Stasera ho bevuto abbastanza da credere che sentirmi gli farebbe piacere come non mai. Il pensiero mi eccita e la musica mi eccita e il giovane al piano mi eccita. Voglio rompere il silenzio tra noi.

Hai sempre parlato tu per primo. Dimmi qualcosa. Sono quasi le tre del mattino. Dove abiti tu. Che stai facendo? Sei da solo?

Basta qualche tua parola e tutti gli altri si riducono a un rimpiazzo, compreso me stesso, la mia vita, il mio lavoro, la mia casa, i miei amici, i miei figli, […]e questa storiella con Mr. Paul e Ms. Erica, ogni cosa diventa un paravento, e alla fine anche la vita stessa si trasforma in un semplice diversivo.

E non esiste altro che te.

Non penso che a te.

Stai pensando a me stasera? Ti ho svegliato?

Lui non risponde. ____________________________________________

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 ??  ?? André Aciman è nato ad Alessandri­a d’Egitto nel 1951 e oggi vive e lavora a New York, dove insegna letteratur­a comparata alla City University. Dopo “Chiamami col tuo nome”, (diventato un film nel 2017 per la regia di Luca Guadagnino), Guanda ha pubblicato “Notti bianche”, “Harvard Square”, “Variazioni su un tema originale”, il memoir “Ultima notte ad Alessandri­a” e la raccolta di saggi “Città d’ombra”. “Cercami” uscirà in Italia a ottobre.
In apertura. In alto. Camicia di seta stampa patchwork con bottoni in madreperla, Givenchy. In basso. Bracciale Tiffany T Square in acciaio laccato nero, Tiffany & Co.
André Aciman è nato ad Alessandri­a d’Egitto nel 1951 e oggi vive e lavora a New York, dove insegna letteratur­a comparata alla City University. Dopo “Chiamami col tuo nome”, (diventato un film nel 2017 per la regia di Luca Guadagnino), Guanda ha pubblicato “Notti bianche”, “Harvard Square”, “Variazioni su un tema originale”, il memoir “Ultima notte ad Alessandri­a” e la raccolta di saggi “Città d’ombra”. “Cercami” uscirà in Italia a ottobre. In apertura. In alto. Camicia di seta stampa patchwork con bottoni in madreperla, Givenchy. In basso. Bracciale Tiffany T Square in acciaio laccato nero, Tiffany & Co.

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