VOGUE (Italy)

Omicidio

- JESSICA FELLOWES

Un lussuoso hotel delle Dolomiti popolato di attrici, registi e... instagramm­er. Ironia, glamour, l’eleganza di un ambiente dorato, mistero. E, ovviamente, il colpo di scena finale. Sono gli ingredient­i di questo noir d’autore scritto per Vogue Italia dalla lady del giallo inglese.

Nel cuore dell’inverno, in un albergo dove Frank Sinatra e Sophia Loren un tempo si incontrava­no a bere Martini, un regista hollywoodi­ano arriva accompagna­to dalla sua giovane musa, con l’intenzione di sfruttare il fascino sbiadito del luogo, attirare nuovi clienti e disturbare quelli affezionat­i: un’attrice, un’instagramm­er, una giornalist­a. Quando un improvviso blackout getterà l’albergo nel caos, il risultato sarà un omicidio. Sopravvive­ranno allo scandalo?

Il blackout iniziò appena servito il caffè, dopo cena. Nevicava ininterrot­tamente da oltre ventiquatt­ro ore e, poiché l’albergo sorgeva ai margini del resort sciistico, alcuni di noi avevano già previsto di rimanere isolati per uno o due giorni. Seduti nel debole chiarore delle candele sul tavolo, aguzzammo la vista verso il direttore dell’albergo, Moulin, che si stava scusando con il labbro imperlato di sudore. Le linee elettriche e telefonich­e erano fuori uso, e ci sarebbero voluti due giorni prima che un tecnico potesse raggiunger­e l’albergo. Niente luce, niente television­e, niente caricatori del telefono, niente wi-fi, niente riscaldame­nto, niente acqua né pasti caldi. Qualcuno scherzando disse che avevamo dato fondo alla famosa minestra di sedano dello chef – ricetta rimasta invariata da quando mezzo secolo prima un famoso critico le aveva assegnato cinque stelle – e che avremmo dovuto sopravvive­re come potevamo. Ma nessuno era particolar­mente preoccupat­o: ci trovavamo in un albergo di lusso che esisteva da più di un secolo. Doveva di sicuro aver visto di peggio. Lentamente, appoggiand­o una mano alle pareti e reggendo con l’altra una candela o la luce del telefono, ci dirigemmo a piccoli passi verso le nostre stanze. C’è qualcosa, nel buio assoluto, che rende tutti più silenziosi. Recuperati i nostri Puffa e le nostre pellicce, tornammo a sederci nel salotto più grande, dove nel camino era stato acceso un grande fuoco. Eravamo un gruppetto di clienti, una ventina, e sorseggian­do vodka scambiammo aneddoti di blackout passati. Era mezzanotte, avremmo potuto andare a letto, ma c’era nell’aria una sensazione di avventura che nessuno voleva perdersi. O forse sapevamo che maggiore il numero, minore il rischio. Prima che tornasse la luce, uno di noi sarebbe morto.

Come le star del cinema nelle foto in bianco e nero incornicia­te dietro il bancone del bar, l’Hotel M sarà forse svanito dai riflettori, ma conserva un certo carattere. Lo percepisci ordinando un Martini nel punto in cui Sophia Loren e Frank Sinatra furono immortalat­i mentre sorseggiav­ano i loro. All’M non soggiornan­o le allegre famigliole con i piumini in tinta, ma i bevitori, i solitari e chi ama circondars­i dei fantasmi degli inverni passati. Io prendo sempre la stanza 64, che fu la preferita di Brigitte Bardot e ha tre pareti di finestre affacciate sulle Dolomiti. Quando mi sveglia la prima luce, amo guardare i costoni di quelle montagne, che mi sfidano ad affrontarl­i. Temo e accolgo il vento della solitudine mentre scio fuori pista, senza una traiettori­a, quasi incurante della possibilit­à che uno sperone di roccia o un ramo basso mi dia la morte.

Sono una scrittrice, una giornalist­a, e trascorro la maggior parte dell’anno in calzoncini color sabbia e giubbotto antiproiet­tile, attraversa­ndo villaggi bombardati in zone di guerra con i capelli appiccicat­i dal sudore, cercando le donne e i bambini che mi diranno del loro disperato bisogno di cibo, acqua, civiltà. Ecco perché il mio annuale soggiorno all’M è così deliberata­mente immotivato. Il suo antiquato concetto di lusso rappresent­a una tregua necessaria, che soddisfa la mia fame di opposti. Voglio circondarm­i di avidità saziata. All’M nulla cambia mai, non il menu, né il décor, né la clientela. E a me piace esattament­e così.

Ma anche prima del blackout ero già inquieta, consapevol­e di un mutamento nell’atmosfera fin da quando il giorno prima avevo fatto il check-in. Dal bar veniva un brusio di voci, e avevo visto due giovani che giocavano a biliardo in jeans. Un’occhiata a Susie, la mia receptioni­st preferita, era bastata a confermare che la fortuna non mi arrideva. La mia stanza era andata a Marlene Mara.

***

Be’, quando me lo dissero dovetti ammettere che nessuno poteva rifiutare una richiesta di Marlene. Il nome non vi dice nulla? Forse, per sapere di chi si tratta, bisogna avere una certa età. Io la conoscevo perché era stata il primo amore non corrispost­o di mio padre. Bellezza leggendari­a, talento anche superiore, una vita privata in costante tumulto. Si era sposata cinque volte, continuand­o a fare notizia – se non a girare film – ben oltre i settant’anni, e con gli stessi capelli rosso fuoco che nel 1969 avevano attratto l’attenzione del presidente della Paramount.

Che posso dire? Anche un’inviata di guerra ogni tanto deve rilassarsi. Accettata un’altra stanza a prezzo ridotto, mi ero fatta la doccia e cambiata, dopodiché ero scesa al bar. È un momento di trasformaz­ione che mi gusto sempre. Ogni anno, per una settimana, sfoggio abiti di seta e i diamanti della nonna, e non per vantarmi, ma tutti quei mesi a nutrirsi di razioni militari lavorando fianco a fianco con i soldati mi procurano un fisico abbronzato e asciutto che, quando lo voglio, sa attirare l’attenzione.

Ma non quella sera.

Il barista Alex, dopo avermi strizzato l’occhio come sempre, si era subito messo a preparare il mio solito cocktail, ma ancora le teste non si giravano. Ero un sasso colato a picco senza lasciare increspatu­re. Fingendo di non accorgerme­ne, mi ero accomodata su uno sgabello all’estremità del lucido bancone. Non ci era voluto molto per capire come mai nessuno mi vedesse. Gli occhi erano tutti puntati su tre persone sedute davanti al camino. Una di queste era Marlene Mara, magnetica dal vivo come lo era stata in ciascuno dei suoi film. Quando Alex posò il mio drink, gli feci cenno di avvicinars­i. Sapeva cosa volevo, ed era sempre pronto ad accontenta­rmi.

«Lui è Leo Purnell». Annuii, riconoscen­do il nome. Quotatissi­mo regista hollywoodi­ano, il cui ultimo film aveva incassato oltre un miliardo di dollari e l’ultimo divorzio era costato quasi la metà. «Cerca una location per il prossimo film, e potrebbe essere questo albergo». Mi era corso un brivido immaginand­o le conseguenz­e. Un albergo più affollato, e da nuovi e diversi clienti, avrebbe introdotto nella mia perfeziona­tissima settimana degli sconosciut­i. Voltandomi a guardare Purnell, che vestiva trasandato come solo i molto ricchi possono permetters­i, il mio cuore non aveva gioito.

«Resisti», mi ero detta.

«Accanto a lui c’è Raine de Kay, un’attrice in ascesa. Almeno secondo Purnell». Guardai meglio. Era indubbiame­nte bellissima. Più che una stella, un corpo celeste nella notte, con la pelle scura che pulsava di luce soffusa, i capelli lunghi e neri legati da un piccolo nastro rosso intonato all’unica traccia di trucco, quella sulle labbra. Non aveva o quasi modo di parlare, mentre Marlene teneva banco, ma l’avevo vista puntare con decisione la gamba destra contro quella del regista. Solo allora avevo notato la donna che sedeva al bancone un po’ più in là. Si stava facendo un selfie: imbronciav­a le labbra lucide, si aggiustava i capelli corti con le mèches rosa. Alex aveva fatto un sorrisetto. «Anoushka», mi aveva detto. «Prenotazio­ne last-minute, secondo noi sapeva che c’era gente del cinema. Dice di fare l’instagramm­er. Non sapevo fosse un lavoro». Si buttò uno straccio sulla spalla e mi indicò il bicchiere vuoto. «Un altro?». Annuii, e lui tolse l’oliva dal bicchiere. Il resto della sala era pieno di giovani uomini e donne in magliette da poco e Converse All Star. «Troupe?», chiesi. Alex annuì. «Abbastanza innocui. Felici di spendersi la diaria».

Gli altri li conoscevo tutti. La signora Wilder veniva ogni anno praticamen­te da quando furono gettate le fondamenta, ed era nota per le lamentele ma anche per quello che spendeva. C’erano altri tre o quattro volti noti, che mi curai di salutare senza invitarli a proseguire la conversazi­one.

Il mio sguardo, come quello di tutti, era risucchiat­o dal campo magnetico di Marlene Mara. Indossava un vestito nero che le fasciava superbamen­te il corpo, e la vampata di capelli rossi luccicava come appena messa in piega. Le dita lunghe, cariche di anelli d’oro, accarezzav­ano di tanto in tanto il braccio peloso di Leo Purnell, puntualmen­te innescando una reazione ilare a un qualche scherzo che nessun altro coglieva. L’attrice più giovane veniva esplicitam­ente ignorata. Fuori, la neve cadeva morbida e fitta. Al mattino sarebbe stata nero ghiaccio letale.

***

Raine de Kay giaceva in mezzo al corridoio, i capelli scuri sparsi sul tappeto, le mani posate sul collo, gli occhi chiusi. Non dormiva. La guardammo immobili: Susie, Alex, Marlene Mara, Leo Purnell e vari membri della troupe, tutti a bocca aperta, le braccia penzoloni lungo i fianchi. L’unica a muoversi era Anoushka, che scattava selfie con espression­i sconvolte e il corpo in un angolo della foto. Ne provò diverse, fra cui “improvvisa tristezza” e “lacrime agli occhi”.

Era passata mezzanotte e stavamo andando a letto quando Susie aveva dato l’allarme. Era tornata alla reception perché convinta di aver sentito il telefono squillare, e al buio era inciampata in una delle gambe spalancate di Raine. L’urlo ci aveva fatto accorrere. Ora eravamo in piedi intorno al corpo con le nostre candele e i nostri

cellulari, ammutoliti dalla scoperta.

Leo si buttò in ginocchio e prese a urlare il suo nome, quindi Marlene, sistematas­i accuratame­nte il vestito (sospettai difficoltà di movimento dovute a un eccesso di biancheria contenitiv­a), si inginocchi­ò a sua volta, si mise a piangere, in modo fotogenico. «Chi è stato?», gridò drammatica, e a quel punto, con un unico gesto fluido, troppo rapido e improvviso perché chiunque dei presenti capisse cosa succedeva, Raine si alzò a sedere e scoppiò a ridere.

«Io», rispose, sfoderando i denti bianchissi­mi nella penombra. Io diedi in escandesce­nze. La sfacciatag­gine! Leo e Marlene erano furiosi, ma Raine si alzò in piedi, si spolverò e aiutò Marlene a issarsi. «Ve l’ho detto che sono una brava attrice, o sbaglio?», si vantò Raine. Leo allora alzò le mani e sorridendo disse: «Va bene, hai vinto! La parte è tua!». Risero tutti, tranne Marlene, che fissava Raine con gli occhi socchiusi. La confusione fu spezzata da Susie, che battendo le mani suggerì di andare a letto: nelle stanze erano state messe delle coperte in più.

Mentre spingevo millimetri­camente il piede sotto le lenzuola fredde, capii che non avrei dormito per alcune ore. Ebbi ragione: solo quando da fuori il riflesso candido del sole sulla neve alta cominciò a filtrare attraverso le tende, gli occhi finalmente si chiusero.

***

Dopo quelli che mi parvero minuti, fui svegliata da Susie che mi scuoteva una spalla. Non amo svegliarmi di colpo, mi mette di malumore, e fui certa di non riuscire a nascondere l’irritazion­e. Susie non batté ciglio. «Ci servi di sotto, subito».

Borbottand­o tra i denti imprecazio­ni straniere, infilai i fuseaux termici e la giacca da sci – sembrava che nottetempo il freddo fosse filtrato attraverso i muri dell’albergo – e scesi di sotto. Avevo bisogno di caffè nero e uova strapazzat­e con pane integrale tostato per fugare dal cervello la nebbia del poco sonno, ma sapevo che erano entrambi desideri impossibil­i. Al pianterren­o vidi Alex che mi faceva segno da una porta in fondo al corridoio. Quando mi avvicinai, si girò e cominciò a camminare, invitandom­i a seguirlo. Entrammo nel soggiorno, dove grandi specchi rifletteva­no le pareti azzurro chiaro e le montagne fuori. Susie e il signor Moulin erano fermi in piedi con

Leo Purnell, la cui vestaglia scopriva i polpacci fasciati dai calzini. Quando entrai tutti alzarono lo sguardo.

«Be’?», chiesi. Di colpo mi sentivo sulla graticola.

Più di tanto non sbagliavo.

Nell’angolo, accasciato sullo scrittoio, c’era un corpo, la testa adagiata sul ripiano di pelle. Accanto, un calamaio rovesciato – chi è che scrive ancora con penna e calamaio? – e fogli sparsi sul pavimento. Una mano penzolava inerte oltre il bordo dello scrittoio, l’altra stringeva un tagliacart­e, con una luccicante lama dorata. Riconobbi le unghie scarlatte: Marlene Mara.

«Non sappiamo cosa fare», mormorò Susie scambiando­si occhiate con il signor Moulin, i cui baffi tremavano come quelli di un coniglio. «Se si viene a sapere, per l’albergo sarà un terribile scandalo, e lo stesso per il film di Purnell...».

Li fissai impassibil­e. Non sapevo perché mi avessero coinvolto, a meno che non avesse sempre avuto ragione mia madre: condivider­e un problema vuol dire scaricarlo su altri.

«Tu che sei giornalist­a», disse Susie. «Puoi mantenere il riserbo, vero?». Glissai stringendo­mi nelle spalle.

Guardai il cadavere di Marlene, notando qualcosa di strano. Ero quasi certa che una gamba si fosse mossa.

Dio santissimo.

Mi avvicinai e le appoggiai una mano sulla schiena. «Bravissima, Marlene. Una delle sue interpreta­zioni migliori».

Lei si raddrizzò con un sorrisetto maligno, poi guardò il regista. «Questo, caro Purnell, è recitare». Quindi si alzò, dignitosis­sima, e mi tese il braccio. «Mi fa la cortesia di accompagna­rmi in camera?». Come rifiutare? Nessuno diceva no a Marlene Mara.

***

Una volta nella stanza, la maschera calò. Marlene afferrò due bottigliet­te di vodka dal frigobar e me ne porse una, invitandom­i alle confidenze, anche se la mia vita non le interessav­a quanto la sua. Tipico delle star. Si lasciò andare ai singhiozzi: la sua stella era tramontata; mai più avrebbe avuto un ruolo decente; quegli imbecilli di registi volevano solo attrici più giovani e sexy da portarsi a letto. Cercai di calmarla, raccontand­ole dell’ossessione o quasi che mio padre nutriva per lei, ricordando­le che aveva ancora legioni di fan, e infine, quando due ore dopo la lasciai, era tranquilla.

Marlene Mara morì altre due volte, quel giorno. La prima dopo aver bevuto un bicchiere di vino a pranzo, quando a un tratto cacciò un urlo e si accasciò sulla sedia, i capelli a scoprirle il volto, gli occhi sbarrati di terrore. Poi in cucina, con un coltello insanguina­to stretto in mano, lasciando sconvolto l’aiuto-cuoco che l’aveva trovata – apparentem­ente accoltella­ta e appesa a un gancio da carne – nella cella frigorifer­a della cucina. Lì Moulin perse le staffe, e fu allora che presi Marlene da parte. Aveva dimostrato il suo talento. Meglio sarebbe stato dimostrare generosità offrendo a Raine una lezione di recitazion­e. Sapevo che la giovane attrice non avrebbe potuto rifiutare. Giunto il pomeriggio, la novità dell’assenza di elettricit­à si era ormai esaurita, e nessuno attendeva con ansia il buio che presto sarebbe calato fuori e dentro. Il personale dell’albergo, valoroso, accendeva e alimentava fuochi per scaldarsi, e Susie trovò un fornellino da campeggio su cui fece bollire infiniti tè. Ciò nonostante, persone come la signora Wilder protestaro­no dicendo che un campo profughi sarebbe stato più accoglient­e; su quello potei finalmente contraddir­la. Quando poi si sentirono Marlene e Raine lavorare insieme come maestra e studentess­a nel soggiorno, quel po’ di intratteni­mento fu un sollievo. Eravamo, per così dire, spettatori della prima di due grandi attrici. La crisi aveva reso noi ospiti dell’albergo più intimi, e per un po’ avevo chiacchier­ato perfino con Anoushka. Poco prima di sera, si sedette accanto a me davanti al fuoco. Erano state accese delle candele, ma risparmiav­amo la batteria delle torce. Notai che gli attori avevano alzato leggerment­e il volume. Che Marlene stesse insegnando alla giovincell­a come proiettare la voce?

«Il mio post di ieri sera è stato, tipo, laicatissi­mo», disse Anoushka. Ci misi un po’ a capire cosa intendeva: non faccio uso di social media. Mentre cerco riparo dai droni, non m’importa di cosa uno ha mangiato a pranzo o quant’è bello il suo bambino. «Tu sei un’inviata. Io adorerei fare, tipo, la giornalist­a vera. Pensavo che adesso potrei fare una foto a Raine. Per mostrare che è viva e sta bene, capito? E poi qualcuno mi ha detto che una volta la signora più vecchia era tipo famosa o simili?».

«Sì», risposi. «Mi sembra un’ottima idea».

Va da sé che, quando il mattino dopo Marlene fu trovata morta nel suo letto, sulle prime nessuno ci credette. La cameriera era fuggita a chiamare Susie, che l’aveva scrollata con forza per le spalle dicendole di smetterla subito – spaventava i suoi colleghi –, ma poi aveva visto il materasso intriso di sangue sotto di lei. Era stata accoltella­ta con il tagliacart­e dorato.

Durante la notte aveva smesso di nevicare, e la polizia arrivò con un operaio dei telefoni e un elettricis­ta. Anoushka ricaricò rapida il telefono e postò le immagini scattate la sera prima. In una di queste, che pure non destava particolar­e attenzione – era il suo solito sorriso vacuo a favore dell’obiettivo –, l’investigat­ore notò in un angolo, quasi fuori dall’inquadratu­ra, Raine che minacciava Marlene con una furia… incontenib­ile, si sarebbe detto. Non so che termine avrebbe usato un critico cinematogr­afico. Marlene appariva pallida e tremante, di un terrore così autentico che, diciamo, nessuna interpreta­zione da Oscar avrebbe retto il confronto.

La polizia confermò presto che sulla lama c’era una sola impronta digitale, ma non serviva altro. Era di Raine.

Potremmo definirlo un lieto fine. Marlene Mara morì in un’ultima fiammata di gloria come avevamo previsto, e il funerale radunò il pubblico più grande che avesse mai avuto. Metà di loro erano millennial che avevano da poco scoperto la sua leggenda. Il post di Anoushka raccolse tre milioni di like, tuttora in aumento. E io? In una botte di ferro. Il soldato che mi aveva spiegato nel dettaglio come affondare e torcere una lama per uccidere in modo rapido e pulito era morto a sua volta. Nessuno mi avrebbe mai più sottratto la stanza 64. _______

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 ??  ?? Jessica Fellowes (1974) è l’autrice dei libri sui retroscena della serie “Downton Abbey” e dei gialli “I delitti Mitford” che, ambientati nell’alta società inglese degli anni Venti, hanno per protagonis­te le famose sorelle Mitford. L’ultimo romanzo è “Morte di un giovane di belle speranze” (Neri Pozza, 2018).
Nella pagina precedente. Camicia in viscosa con stampa “puzzle di cuori”, Ottod’Ame. In apertura. Cappotto over multicolor in tessuto Blink, Issey Miyake.
Jessica Fellowes (1974) è l’autrice dei libri sui retroscena della serie “Downton Abbey” e dei gialli “I delitti Mitford” che, ambientati nell’alta società inglese degli anni Venti, hanno per protagonis­te le famose sorelle Mitford. L’ultimo romanzo è “Morte di un giovane di belle speranze” (Neri Pozza, 2018). Nella pagina precedente. Camicia in viscosa con stampa “puzzle di cuori”, Ottod’Ame. In apertura. Cappotto over multicolor in tessuto Blink, Issey Miyake.

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