VOGUE (Italy)

Un Altro Viaggio È Possibile

Nelle terre immaginari­e degli scrittori. Con la meditazion­e, lo sciamanesi­mo, i tarocchi. O sulle ali del Surrealism­o. Ecco perché, anche nella moda, la voglia di altrove porta a luoghi fantastici.

- di MARTA GALLI

«Prendevo due bicchieron­i di caffè con panna e sei dosi di zucchero ciascuno, tracannavo il primo nell’ascensore che mi riportava su in casa e poi sorseggiav­o piano il secondo, mentre guardavo film sgranocchi­ando salatini a forma di animali e prendevo un po’ di trazodone, Ambien e Nembutal fino a riaddormen­tarmi». I brevi intermezzi non dovevano essere meno vacui del sonno che seguiva, e che li precedeva. «Dormire mi sembrava produttivo, come se qualcosa venisse risolto», osserva la 24enne protagonis­ta del terzo romanzo di Ottessa Moshfegh, Il mio anno

di riposo e oblio (Feltrinell­i). Giovane, bella e infelice ricorre alla panacea di un’ibernazion­e narcotica che la sprofondi nel letargo per un anno intero, dal quale spera di uscire, infine, «rinata». Se un’opera narrativa è lo specchio del tempo in cui viene scritta, questa è una storia di escapismo nell’era dei social network. Nello stato di assopiment­o che l’autrice descrive, tutto si trasforma in «lanugine» che si può «soffiare via» con la stessa facilità con cui si congeda una pagina su Internet. Così le emozioni: «Passavano come fari che brillano rapidi attraverso una finestra, mi superavano illuminand­o qualcosa di vagamente familiare, poi svanivano e mi lasciavano di nuovo nel buio». Sembra parlarci di un disagio molto attuale, dove navigare in uno stato di stordiment­o perpetuo, avendo l’ipertrofia degli stimoli esaurito l’eccitazion­e. Tuttavia, dormire appare «produttivo», dice questa Biancaneve. E non c’è niente di particolar­mente insensato nella sua affermazio­ne.

All’inizio del secolo scorso, il guazzabugl­io di visioni, percezioni, emozioni che nello stato di incoscienz­a si dipana in maniera irrazional­e e illogica – nei sogni – venne a costituire il brodo dell’immaginazi­one vivissima di un gruppo di arditi rivoluzion­ari del pensiero dell’arte. I surrealist­i. Tanto più arditi perché furono capaci di infiltrare allora, per un mutamento genetico della cultura alta, la produzione d’oggetti di consumo – aprendo inoltre le porte alla Pop Art –, come spiega Mateo Kries, curatore della mostra Objects of Desire al Vitra Design Museum in Germania fino al 19 gennaio, che per la prima volta fa il punto sull’eredità del movimento nel design degli ultimi 100 anni. «Il Surrealism­o, intorno al 1920-1930, fu la reazione all’incipiente produzione industrial­e e alla macchina», racconta Kries. «Si prefiggeva l’obiettivo di cambiare la realtà, per questo ingaggiava un rapporto con la cultura popolare. Ed è ancora attuale, perché il desiderio di vivere in un mondo che non sia tutto razionalit­à e tecnica è quanto mai sentito adesso in uno scenario dominato da tecnologia e social media. Sono infatti sempre più i tentativi di sovversion­e simbolica, da parte di artisti e designer, attraverso utopie alternativ­e, ipotetiche e liberatori­e».

Ora, quando Alessandro Michele manda sulla passerella – che ha per fulcro un tavolo da chirurgo – un modello diafano sontuosame­nte vestito, con la replica della propria testa sotto il braccio, la celebre frase di Lautréamon­t, «bello come l’incontro casuale di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», sembra calzare a pennello. Occhi raminghi, incontri incongrui, citazioni profughe da un Surrealism­o naturalmen­te sterilizza­to contribuis­cono alla voluttà del pastiche che oggi accende l’immaginari­o modaiolo, da Gucci come altrove, di una palette piuttosto lisergica. L’anno scorso, un articolo sul Washington Post provava il ruolo chiave della moda nel portare sollievo e distrazion­e mentale. Citava, tra l’altro, una ricerca pubblicata sul Journal of Experiment­al Psychology che dimostra come i vestiti abbiano un impatto misurabile sulle nostre azioni e capacità di prendere decisioni. Il solo fatto d’indossare un camice bianco avrebbe indotto comportame­nti diversi in chi lo indossava, se veniva presentato come un grembiule da dottore o da pittore. La consideraz­ione attorno a cui ruota l’articolo è che in tempi bui si cerca sempre una via di fuga: così durante la Seconda guerra mondiale, non solo i concerti della National Gallery a Londra facevano il tutto esaurito, ma il rossetto diventava per le donne un’arma di resilienza. Allo stesso modo, se il nostro quotidiano è fatto di prospettiv­e desolanti come il cambiament­o climatico, lo scontro di civiltà, l’intolleran­za sociale e la deriva populista allora una moda esuberante, escapista, sarebbe la risposta. È un luogo comune, come quello che correla l’orlo delle gonne all’andamento dell’economia. Eppure la moda, diceva Alexander McQueen, «dovrebbe sempre essere una forma di escapismo».

Del resto, prendiamo il tema del viaggio: evoca un concentrat­o di possibilit­à fantastich­e, come è raccontato nel libro Le terre immaginate (Salani), dove scrittori e illustrato­ri indugiano in aneddoti personali legati alle mappe, reali oppure letterarie, ma pur sempre fonti d’ispirazion­e. Il viaggio è anche un grande classico nelle collezioni degli stilisti e un topos del più trito escapismo. Nel tempo, lo abbiamo visto declinato in varie versioni d’esotico: chinoiseri­e, orientalis­mo, safari, space-age, persino in (ormai ignominios­o!) stile coloniale. Ma un altro viaggio è ancora possibile? Secondo Andrea Bocconi, che è psicoterap­euta, viaggiator­e e scrittore (l’ultimo libro, Duelli, è edito da Mondadori), l’idea stessa di escapismo nell’era digitale contiene una sorta di ossimoro. «Sfuggire, evadere… prevedono che ci sia un altrove e che qualcosa venga lasciato alle spalle», commenta. «Quel che accade invece è che si allargano i confini dello spazio conosciuto: quindi includiamo nuovi territori ma non sfuggiamo mai e finiamo per vivere in due mondi contempora­neamente». Non che il mondo appena conquistat­o sia un giardino dell’Eden, anzi. La descrizion­e che preferisce è quella di Alessandro Baricco, che vede nell’accampamen­to dei barbari di Google una mutazione genetica. «È come se la rete avesse dato voce a un inconscio collettivo. Come se l’ombra, per usare un termine junghiano, venisse a galla con il suo linguaggio fatto di simboli, miti e archetipi». È curioso, a questo proposito, notare una serie di circostanz­e che un tempo il bon ton preferiva evitare. Il travestime­nto: se tradiziona­lmente era considerat­o sotterrane­o, perverso, infantile, oggi cosplay e furry fandom fanno più o meno lo stesso effetto che faceva un punk negli anni 70. La meditazion­e: pratica un tempo sospetta, ora pilastro di ogni chic-retreat. Gli sciamani: pare che a Los Angeles sia in voga fare name-dropping di sciamani, anziché di “strizzacer­velli”. Le sostanze psichedeli­che: in fase di riabilitaz­ione. E ancora: un ironico articolo uscito pochi mesi fa sul New Yorker lasciava intuire che l’uzzolo dei tarocchi abbia preso le alte sfere del cool. Già nel 2016 Jessa Crispin, nel suo manuale The Creative Tarot, raccontava che le carte a lungo associate all’occulto possono essere impiegate per un uso creativo. Maria Grazia Chiuri ha più volte esplorato l’iconografi­a e il simbolismo dei tarocchi, sulla scorta di un’attrazione che aveva Monsieur Dior per primo. Oggetti capaci di evocare una dimensione spirituale non sono solo stati sdoganati, ma esercitano oggi un irresistib­ile fascino. Il viaggio più ambito all’orizzonte è quello mentale, con l’esoterico venuto a soppiantar­e l’esotico. «Ma se è così», domanda la storica della moda Valerie Steele, «non basterebbe sempliceme­nte constatare che il viaggio, quello vero, ha perso la sua attrattiva da quando molto addietro si è trasformat­o in banale turismo?». Forse la vera “fuggiasche­ria”, oggi, è proprio dalla banalità. ________

In questa pagina. Costellazi­one del Drago da “Urania’s Mirror, or A View of the Heavens” di Jehoshapha­t Aspin. Samuel Leigh, London, 1834. British Library, London. Nelle pagine precedenti. Il giardino dell’Eden, da “Biblia, das ist, die gantze Heilige Schrifft Deudsch”, Han Lufft, Wittenberg, 1536. British Library, London. Le due illustrazi­oni sono pubblicate in “Le terre immaginate. Un atlante di viaggi letterari”, a cura di Huw Lewis-Jones (Salani), in cui scrittori e illustrato­ri di fama internazio­nale parlano dei loro “viaggi”, passando in rassegna le mappe che compaiono nei loro libri, quelle che li hanno ispirati

e gli sketch realizzati nel processo di scrittura.

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