Un Altro Viaggio È Possibile
Nelle terre immaginarie degli scrittori. Con la meditazione, lo sciamanesimo, i tarocchi. O sulle ali del Surrealismo. Ecco perché, anche nella moda, la voglia di altrove porta a luoghi fantastici.
«Prendevo due bicchieroni di caffè con panna e sei dosi di zucchero ciascuno, tracannavo il primo nell’ascensore che mi riportava su in casa e poi sorseggiavo piano il secondo, mentre guardavo film sgranocchiando salatini a forma di animali e prendevo un po’ di trazodone, Ambien e Nembutal fino a riaddormentarmi». I brevi intermezzi non dovevano essere meno vacui del sonno che seguiva, e che li precedeva. «Dormire mi sembrava produttivo, come se qualcosa venisse risolto», osserva la 24enne protagonista del terzo romanzo di Ottessa Moshfegh, Il mio anno
di riposo e oblio (Feltrinelli). Giovane, bella e infelice ricorre alla panacea di un’ibernazione narcotica che la sprofondi nel letargo per un anno intero, dal quale spera di uscire, infine, «rinata». Se un’opera narrativa è lo specchio del tempo in cui viene scritta, questa è una storia di escapismo nell’era dei social network. Nello stato di assopimento che l’autrice descrive, tutto si trasforma in «lanugine» che si può «soffiare via» con la stessa facilità con cui si congeda una pagina su Internet. Così le emozioni: «Passavano come fari che brillano rapidi attraverso una finestra, mi superavano illuminando qualcosa di vagamente familiare, poi svanivano e mi lasciavano di nuovo nel buio». Sembra parlarci di un disagio molto attuale, dove navigare in uno stato di stordimento perpetuo, avendo l’ipertrofia degli stimoli esaurito l’eccitazione. Tuttavia, dormire appare «produttivo», dice questa Biancaneve. E non c’è niente di particolarmente insensato nella sua affermazione.
All’inizio del secolo scorso, il guazzabuglio di visioni, percezioni, emozioni che nello stato di incoscienza si dipana in maniera irrazionale e illogica – nei sogni – venne a costituire il brodo dell’immaginazione vivissima di un gruppo di arditi rivoluzionari del pensiero dell’arte. I surrealisti. Tanto più arditi perché furono capaci di infiltrare allora, per un mutamento genetico della cultura alta, la produzione d’oggetti di consumo – aprendo inoltre le porte alla Pop Art –, come spiega Mateo Kries, curatore della mostra Objects of Desire al Vitra Design Museum in Germania fino al 19 gennaio, che per la prima volta fa il punto sull’eredità del movimento nel design degli ultimi 100 anni. «Il Surrealismo, intorno al 1920-1930, fu la reazione all’incipiente produzione industriale e alla macchina», racconta Kries. «Si prefiggeva l’obiettivo di cambiare la realtà, per questo ingaggiava un rapporto con la cultura popolare. Ed è ancora attuale, perché il desiderio di vivere in un mondo che non sia tutto razionalità e tecnica è quanto mai sentito adesso in uno scenario dominato da tecnologia e social media. Sono infatti sempre più i tentativi di sovversione simbolica, da parte di artisti e designer, attraverso utopie alternative, ipotetiche e liberatorie».
Ora, quando Alessandro Michele manda sulla passerella – che ha per fulcro un tavolo da chirurgo – un modello diafano sontuosamente vestito, con la replica della propria testa sotto il braccio, la celebre frase di Lautréamont, «bello come l’incontro casuale di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», sembra calzare a pennello. Occhi raminghi, incontri incongrui, citazioni profughe da un Surrealismo naturalmente sterilizzato contribuiscono alla voluttà del pastiche che oggi accende l’immaginario modaiolo, da Gucci come altrove, di una palette piuttosto lisergica. L’anno scorso, un articolo sul Washington Post provava il ruolo chiave della moda nel portare sollievo e distrazione mentale. Citava, tra l’altro, una ricerca pubblicata sul Journal of Experimental Psychology che dimostra come i vestiti abbiano un impatto misurabile sulle nostre azioni e capacità di prendere decisioni. Il solo fatto d’indossare un camice bianco avrebbe indotto comportamenti diversi in chi lo indossava, se veniva presentato come un grembiule da dottore o da pittore. La considerazione attorno a cui ruota l’articolo è che in tempi bui si cerca sempre una via di fuga: così durante la Seconda guerra mondiale, non solo i concerti della National Gallery a Londra facevano il tutto esaurito, ma il rossetto diventava per le donne un’arma di resilienza. Allo stesso modo, se il nostro quotidiano è fatto di prospettive desolanti come il cambiamento climatico, lo scontro di civiltà, l’intolleranza sociale e la deriva populista allora una moda esuberante, escapista, sarebbe la risposta. È un luogo comune, come quello che correla l’orlo delle gonne all’andamento dell’economia. Eppure la moda, diceva Alexander McQueen, «dovrebbe sempre essere una forma di escapismo».
Del resto, prendiamo il tema del viaggio: evoca un concentrato di possibilità fantastiche, come è raccontato nel libro Le terre immaginate (Salani), dove scrittori e illustratori indugiano in aneddoti personali legati alle mappe, reali oppure letterarie, ma pur sempre fonti d’ispirazione. Il viaggio è anche un grande classico nelle collezioni degli stilisti e un topos del più trito escapismo. Nel tempo, lo abbiamo visto declinato in varie versioni d’esotico: chinoiserie, orientalismo, safari, space-age, persino in (ormai ignominioso!) stile coloniale. Ma un altro viaggio è ancora possibile? Secondo Andrea Bocconi, che è psicoterapeuta, viaggiatore e scrittore (l’ultimo libro, Duelli, è edito da Mondadori), l’idea stessa di escapismo nell’era digitale contiene una sorta di ossimoro. «Sfuggire, evadere… prevedono che ci sia un altrove e che qualcosa venga lasciato alle spalle», commenta. «Quel che accade invece è che si allargano i confini dello spazio conosciuto: quindi includiamo nuovi territori ma non sfuggiamo mai e finiamo per vivere in due mondi contemporaneamente». Non che il mondo appena conquistato sia un giardino dell’Eden, anzi. La descrizione che preferisce è quella di Alessandro Baricco, che vede nell’accampamento dei barbari di Google una mutazione genetica. «È come se la rete avesse dato voce a un inconscio collettivo. Come se l’ombra, per usare un termine junghiano, venisse a galla con il suo linguaggio fatto di simboli, miti e archetipi». È curioso, a questo proposito, notare una serie di circostanze che un tempo il bon ton preferiva evitare. Il travestimento: se tradizionalmente era considerato sotterraneo, perverso, infantile, oggi cosplay e furry fandom fanno più o meno lo stesso effetto che faceva un punk negli anni 70. La meditazione: pratica un tempo sospetta, ora pilastro di ogni chic-retreat. Gli sciamani: pare che a Los Angeles sia in voga fare name-dropping di sciamani, anziché di “strizzacervelli”. Le sostanze psichedeliche: in fase di riabilitazione. E ancora: un ironico articolo uscito pochi mesi fa sul New Yorker lasciava intuire che l’uzzolo dei tarocchi abbia preso le alte sfere del cool. Già nel 2016 Jessa Crispin, nel suo manuale The Creative Tarot, raccontava che le carte a lungo associate all’occulto possono essere impiegate per un uso creativo. Maria Grazia Chiuri ha più volte esplorato l’iconografia e il simbolismo dei tarocchi, sulla scorta di un’attrazione che aveva Monsieur Dior per primo. Oggetti capaci di evocare una dimensione spirituale non sono solo stati sdoganati, ma esercitano oggi un irresistibile fascino. Il viaggio più ambito all’orizzonte è quello mentale, con l’esoterico venuto a soppiantare l’esotico. «Ma se è così», domanda la storica della moda Valerie Steele, «non basterebbe semplicemente constatare che il viaggio, quello vero, ha perso la sua attrattiva da quando molto addietro si è trasformato in banale turismo?». Forse la vera “fuggiascheria”, oggi, è proprio dalla banalità. ________
In questa pagina. Costellazione del Drago da “Urania’s Mirror, or A View of the Heavens” di Jehoshaphat Aspin. Samuel Leigh, London, 1834. British Library, London. Nelle pagine precedenti. Il giardino dell’Eden, da “Biblia, das ist, die gantze Heilige Schrifft Deudsch”, Han Lufft, Wittenberg, 1536. British Library, London. Le due illustrazioni sono pubblicate in “Le terre immaginate. Un atlante di viaggi letterari”, a cura di Huw Lewis-Jones (Salani), in cui scrittori e illustratori di fama internazionale parlano dei loro “viaggi”, passando in rassegna le mappe che compaiono nei loro libri, quelle che li hanno ispirati
e gli sketch realizzati nel processo di scrittura.