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Goude News

Una mostra celebra a Milano il creatore delle più iconiche campagne di Chanel. Che qui racconta di quando, con Grace…

- di SUSANNA MACCHIA

Nel 19esimo arrondisse­ment, a nord est di Parigi, vivono soprattutt­o famiglie. Perché è un quartiere tranquillo, attraversa­to da due canali e a un passo da Parc de La Villette. Ed è l’ultimo posto dove ci si può aspettare di trovare lo studio e la casa di Jean-Paul Goude. Eclettico, eccentrico, colorato artista dalle mille sfaccettat­ure, si è costruito il suo atelier, luminoso e solare, sulla salita di una strada senza rumori e clamori. Quadri, sculture, piante, pareti finestrate e un giardino terrazzato sui tetti di ardesia.

Posso fare qualche foto? Non la posto, non si preoccupi.

Faccia pure. Anzi, vuole uscire in terrazzo? È bellissima la vista da qui, così inaspettat­a. Inaspettat­a, come quasi tutto quello che la riguarda. Anche la mostra (in programma a Milano dal 15 novembre al 31 dicembre, presentata da Chanel): ci racconta come è nato il titolo In Goude We Trust!?

In passato avevo lavorato molto con Chanel. Poi, per alcuni anni, non ho più avuto contatti. Quando sono tornati per propormi il progetto ho pensato: allora si fidano di me. “In Goude Chanel trusts”, da qui l’idea. Ma era solo un gioco di parole. Non pensavo l’avrebbero usata. Ok, suona bene, ma forse è un po’ troppo. Un po’ troppo, cosa?

L’ambiguità tra il mio nome e Dio. Sono una persona modesta. Non amo ostentare, anche se sembro uno che lo fa. Ma in realtà sono timido, sono un uomo discreto.

In passato è stato protagonis­ta di altre mostre. Che effetto le fa?

Mi piace. Ho iniziato a desiderare di diventare un artista già a 19/20 anni quando frequentav­o la scuola d’arte. Era la fine degli anni 50, inizio 60 e, all’epoca, dominava l’Astrattism­o: tutti amavano Poliakoff. È stato solo quando è arrivata la Pop Art che hanno cominciato a prendermi in consideraz­ione. Perché ho la presunzion­e di pensare che anche il mio lavoro sia artistico, non grande arte, ma sempre arte.

A proposito di Pop Art, lei ha dichiarato che «Warhol è diventato Warhol solo il giorno in cui i suoi quadri sono stati valu

tati molto. Prima era solo Andy, un giovane illustrato­re ambizioso». Dunque l’arte è determinat­a solo dal valore economico? Sì. Sei lì, a casa, che disegni dalla mattina alla sera, ma solo il giorno in cui i tuoi lavori vengono pubblicati su una rivista diventi un illustrato­re profession­ista. È così. Semplice.

La pubblicità è una forma d’arte?

Penso che chiunque realizzi qualcosa di bello e diverso, in grado di far cambiare la prospettiv­a delle persone, debba essere considerat­o un artista.

Ha mai subito la pressione del marketing? È successo. Fa parte del mio lavoro esaltare un prodotto. In francese si dice “faire l’apologie”, ma a me piace, viene spontaneo. E la grandezza sta nel modo in cui lo faccio: se è sofisticat­o e poetico, allora ha un senso.

Ha lavorato molto con Chanel: cosa ha rappresent­ato per lei?

La libertà. Jacques Helleu (direttore artistico della maison per 40 anni, nda) venne da me perché cercava qualcuno che avesse idee nuove. Avevo appena lavorato alla Parata del Bicentenar­io (della Rivoluzion­e Francese, nel 1989, nda) ed ero diventato una superstar come Madonna, un eroe nazionale! Era stato un evento spettacola­re, la gente mi fermava per strada e mi chiedeva l’autografo. Dopo la Parata avevo talmente credibilit­à che non potevano venire a dirmi: fai così e così. Avevo libertà totale. Perché, secondo lei, una pubblicità come Égoïste è diventata così iconica?

Odio l’egoismo. Sono un egotista, non un egoista. Ma mi ha divertito l’idea di un profumo che si chiamasse Égoïste. Ho subito pensato a un mix di moda e teatro e a un tema eterno: le donne scontente degli uomini.

Oggi la rifarebbe nello stesso modo? Credo di sì. È umoristica.

Facciamo un passo indietro. Gli anni 70, New York, lo Studio 54. Che ricordi ha?

Mi piaceva ballare e ballando cercavo di attirare l’attenzione delle ragazze. Frequentav­o lo Studio 54 perché ci andavano tutti, ma non era “my cup of tea”. E poi dovevo lavorare, ero l’art director di Esquire e non potevo uscire tutte le notti come a Parigi.

Grace Jones? Cosa ha rappresent­ato per lei da un punto di vista artistico? Onestament­e, per quanto abbia amato la nostra storia, è stata una fascinazio­ne, la soddisfazi­one di avere accanto una ragazza spettacola­re. Ero un piccolo uomo che aveva conquistat­o una grande donna. Come in un disegno di Fellini. Ma era la classica storia dello show business: sei in tour con la diva, dormi con lei. Poi rimase incinta e ci lasciammo. Nelle sue opere Grace Jones è statuaria, perfetta. Cos’è la perfezione per lei?

Non ricerco la perfezione in sé, ma il modo perfetto di esprimere la mia visione estetica. Grace è tutto tranne che perfetta. Non era una ragazza “carina”. E all’epoca soprattutt­o le ragazze black dello spettacolo erano sempre carine, sorridenti. Grace invece era la mia fantasia, la mia dichiarazi­one estetica. La perfezione non è interessan­te. Questa smania recente di ritoccare ogni immagine è banale. C’è un progetto che non ha ancora avuto modo ma vorrebbe realizzare?

Sì, un musical. Ed essendo egotistico, lo vorrei fare su di me, ispirandom­i a un personaggi­o dei Looney Tunes, “Pepé le Pew”: è una puzzola con grandi baffi e un forte accento francese che tenta di sedurre le gatte. Ho provato a scrivere una sceneggiat­ura ma nessuno in Francia me la produrrebb­e perché la troverebbe­ro offensiva. Ma non vorrei insultare nessuno: l’intenzione è fare ironia sui francesi, il machismo, l’ossessione del pene. Bel modo di finire un’intervista, però.

Inventiamo­ci un’altra fine…

Basta che scriva cose positive su di me. Sono contento che non ci siamo soffermati troppo su Grace. Negli anni 80 era di moda essere estremi, decadenti. Dovevi essere wild per esistere e la spinsi a esserlo molto. Forse ho esagerato. Essendo lei una donna e per di più black.

Oggi si è meno estremi?

I giovani sono più saggi. Dicono: non fare così, non parlare di questo e di quest’altro. Ho un figlio di vent’anni. Lui è così. Giudica sempre. Devo stare attento e tenere un profilo basso. _

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IN GOUDE WE TRUST! a Palazzo Giureconsu­lti (Milano), dal 15 novembre al 31 dicembre, presentata da Chanel. In esposizion­e le campagne realizzate in 30 anni di collaboraz­ione con la maison, e altre opere personali. Tutto, in 3 sezioni: la prima dedicata a Chanel; la seconda, sui diversi mezzi di espression­e dell’imagemaker (film, immagini, disegni, sculture), la terza, per la proiezione del film “So Far So Goude”.
“Blue-Back in Black on Brown” (New York, 1981) è il titolo di quest’opera di Jean Paul Goude (80 anni a dicembre), protagonis­ta Grace Jones. L’immagine sarà esposta nella mostra IN GOUDE WE TRUST! a Palazzo Giureconsu­lti (Milano), dal 15 novembre al 31 dicembre, presentata da Chanel. In esposizion­e le campagne realizzate in 30 anni di collaboraz­ione con la maison, e altre opere personali. Tutto, in 3 sezioni: la prima dedicata a Chanel; la seconda, sui diversi mezzi di espression­e dell’imagemaker (film, immagini, disegni, sculture), la terza, per la proiezione del film “So Far So Goude”.
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