VOGUE (Italy)

Elena E Paride

- artwork di PAOLO VENTURA per Vogue Italia

MICHELA MURGIA

La bellezza è potere, dicono. Ma nel caso di Elena di Troia, protagonis­ta col suo Paride di questo racconto che Vogue Italia pubblica in anteprima, è anche una profezia. Di guerra? Invidia? Bramosia? No. Di questo: Le donne belle sono patrimonio di tutti, ma non possiedono niente di proprio”. “

Mentre dormi sei come un bambino, Paride.

Mentre dormi io posso guardarti come realmente ti vedo, senza che tu riconosca nel mio sguardo quel che davvero penso di te. Gli occhi bassi delle donne non li impone il pudore, ma la prudenza, marito mio. Quando si abbassano le nostre ciglia in pubblico nel gioco muto della seduzione, voi ci credete preda di turbamenti davanti alla brama con cui ci indagate il corpo e l’animo. È un bene questo inganno, credimi. Salva orgogli, vite e regni. Per questo mai ho smentito un uomo nella sua convinzion­e di avermi fatta arrossire per il suo desiderio, né gli ho lasciato capire che a scrutarlo fossi io. Negli anni hanno sorriso tutti in quella danza di sguardi e nessuno di loro ha compreso che cercando fino in fondo alla tana del pudore avrebbe trovato la lancia del giudizio.

Dormi dunque, Paride mio, che nel sonno sei come un bambino. La tua pelle nel buio del giaciglio mi appare pervasa da una vaga luminescen­za, quasi che quel che di giorno è pallore, la notte rivelasse lampi di madreperla sotto l’epidermide trasparent­e, confessand­o un cosmo elettrizza­to di nervi, vene e arterie, col sangue brillante ad accenderle a una a una. Mentre la coscienza assopita brilla dentro te come una tempesta lontana, la tua peluria fulva però nel buio è quieta, senza lo scintillar­e acuto che al sole ti vela le braccia di polvere aurea, monili riconoscib­ili tra mille vasi di terracotta. Così mi apparisti il giorno in cui giungesti a Sparta a cercare accordi per la tua casa: un giovane d’alabastro e oro che valeva più di quanto chiedeva. Se il vello della Colchide ha mai brillato tanto, chi potrà giudicare Giasone per averlo rubato? Non so cosa vedesti tu guardando me, perché abbassai gli occhi come sempre, come con tutti, e non te lo chiesi mai. Ho temuto sempre la risposta e da quel primo silenzio necessario sono giunti tutti gli altri, anche quello che ora ti fa riposare al mio fianco, ignaro e rilassato. Mentre dormi sei come un bambino, Paride, ma quando sei sveglio non sei molto altro. Eppure stanotte questo silenzio mi pesa come un sasso sul cuore. Ti vorrei sveglio, Paride, sveglio come forse non sei stato mai. Domani andrai a batterti contro Menelao e potresti non tornare. Forse per questo tutte le risposte che non ho voluto in questi pochi anni a Troia mi appaiono invece non più rimandabil­i. Se domani morissimo – che morte sarebbe per me la tua morte – diventa essenziale sapere adesso cosa hai visto quando mi hai guardata. Anche tu, come tutti, hai veduto per prima cosa la bellezza, non ne dubito. Ma in cosa questo ti renderebbe diverso da ogni uomo che mi ha voluta prima di te? Quando posasti gli occhi su di me io sperai nel segreto che non fossero solo i miei capelli a imbrigliar­ti lo sguardo, non solo la pelle chiara delle donne che in Ellade si consideran­o di pregio. Io ricordo bene quella prima sera, quando venisti come il figlio di Priamo. Mentre parlavi con Menelao e i suoi consiglier­i alla tavola che era stata preparata per accoglierv­i, ti feci credito di qualcosa che in un uomo non avevo mai sperato. Tra le carni arrostite e il vino che scorreva senza risparmio io sognai di essere capita, un lusso che nemmeno il denaro di mio padre e la generosità di Menelao mi avevano mai potuto comprare.

Le donne belle sono patrimonio di tutti, ma non possiedono niente di proprio. Mentre da bimba le balie mi pettinavan­o stringendo­mi in trecce e vezzi nessuna mi disse che il prezzo del mio splendore sarebbe stata la solitudine, che troppo brillava il mio sole per tollerare altri astri nella propria orbita. Eclissa ogni altra, diceva mio padre, fiero che ognuno guardandom­i perdesse la capacità di vedere tutto il resto. Non è questo che fanno le eclissi nel cielo? Svegliati, Paride, e giurami che non è così che sei caduto anche tu, accecato per aver guardato troppo e troppo a lungo!

Voi siete buona, questo mi dicesti tra le poche parole che scambiammo quella sera. Voi siete buona. Non lo so perché lo hai detto. Certamente non potevi sapere che per ogni giorno della mia vita io ho cercato disperatam­ente di essere buona, qualunque cosa voglia dire essere buoni crescendo a Sparta, dove ogni indulgenza è debolezza. Kalòs kai agathòs è una sentenza ineludibil­e sulla bellezza, perché sottintend­e sia qualcosa che bisogna farsi perdonare. È un furto la luce del corpo, appropriaz­ione indebita della forma degli dèi, dono immeritato e maledizion­e per colpa. Chi è più maledetta di me, la bella tra le belle, sulla terra dei mortali? Ho colpa del desiderio degli uomini, che sin da bambina hanno mirato a me come al premio ultimo delle loro ambizioni. Ho colpa dell’invidia e dell’odio delle donne, tutte seconde scelte a causa del mio solo esistere. Ho colpa anche dell’ira degli dèi, per i quali ogni eccellenza umana è una sfida alle prerogativ­e della natura divina, anche se a compierla è la figlia del sommo dio. Essere buona in mezzo a quella tempesta di colpe sarebbe stato forse il mio riscatto: docile e senza ambizione, misurata nella volontà e flebile nella voce, potente in resa e mai

in attacco, questo era il mandato silenzioso di cui mi feci carico. Mi fu data la prima scelta di ogni cosa, anche degli uomini, ma il patto con me stessa era che io non la facessi. Scegliere il meglio essendo il meglio è arroganza e ingordigia, e chiunque è capace di prendersi quel che gli spetta. Ma poter avere tutto e fermarsi prima di prenderlo è un esercizio di potere così inedito che mentre lo compivo pensarono tutti che fossi impazzita. Sposare Menelao, un figlio cadetto, quando ogni re del Mediterran­eo voleva la mia mano? Per tutti apparve follia, per me la sola scelta esatta. Qual prova migliore che fossi buona, se non quella di rinunciare al privilegio che l’essere la più bella mi consentiva! Lo sposai perché era un mediocre, perché il suo essere figlio minore garantiva che la mia bellezza non avrebbe soffiato su ambizioni nate già nane per gerarchia di sangue. Non potevo immaginare in quel momento che pochi anni dopo Tindareo avrebbe scelto Menelao per succedergl­i e che quel che allora mi pareva una decisione di basso profilo avrebbe fatto di me la regina di Sparta. In quel momento pensai solo che accontenta­rmi di un uomo senza pretese fosse un buon modo per non essere più pretesa io. Un patto in dislivello, certo, ma quale matrimonio non lo è? Pur giovanissi­ma, capivo che se decidi di negoziare al ribasso devi scegliere con cura il debole che ti imponi, eleggendol­o davvero tra i più stupidi, perché esiste una sola cosa peggiore di un mediocre ed è un mediocre abbastanza intelligen­te da capire di esserlo, uno che ti farà pagare tutta la vita il fatto di saperti superiore.

Menelao per fortuna non aveva questa intuizione di sé.

Minore non solo in età, era un re per tempi di pace, perché i tempi di guerra gli avrebbero preteso tutto quel che non aveva: nerbo, consapevol­ezza e saggezza.

Sposai dunque una quiete sciocca, ricca e placida, mettendo la mia bellezza a servizio di una normalità rassicuran­te, fatta di figli e feste comandate, una corte sobria, una vita da regina mite. Se dicessi che mi bastava mentirei, ma non feci mai nulla per cambiare le cose: avevo goduto della possibilit­à di decidere che alle donne del mio rango non viene data mai, e per rispetto a quella libertà dovevo dimostrare che essere stata io a scegliere aveva generato meno errori del farmi scegliere. Non pensai di aver fatto un errore per dieci lunghi anni, fino alla sera in cui ti vidi entrare nella sala del banchetto in casa mia.

Nel momento in cui sei approdato alle nostre sponde che cosa potevi mai sapere tu, Paride, della fatica di diventare adulti con addosso l’intreccio di queste inquietudi­ni? Tra i campi di Agelao, di cui eri figlio adottivo ignaro, tu non eri cresciuto primo di nulla, se non dei buoi e delle giovenche che conducevi. Non sapevi nemmeno di essere nato da una mancanza di fermezza. Dovevano ucciderti in culla, perché un oracolo ti aveva annunciato serpe e fiamma, innesco di incendio per tutta Troia e portatore certo di un fato velenoso. Ecuba e Priamo, pur avvisati, non ebbero cuore di darti la fine necessaria. Davanti al vagito innocente e allo splendore della chioma ramata che già si prometteva criniera sulla tua piccola testa, devono aver pensato che nulla di male poteva venire da tutto quell’oro. Ti lasciarono al caso e il caso volle che un pastore ti crescesse a loro insaputa. Errore da re, quello di pensarsi al di sopra del destino, ma grazie a quell’errore tu ti sei fatto uomo con più levità dei tuoi fratelli. Pensa che fortuna hai avuto! Trovarsi principe di colpo senza che nessuna aspettativ­a ti abbia fatto sentire inadeguato, né carico ti abbia piegato le spalle con le responsabi­lità. Non avresti comunque conosciuto il peso della primogenit­ura di Ettore, ma forse a minare il tuo cuore sarebbe stato il rancore segreto di essergli secondo. Ti fu risparmiat­a questa prova o solo rimandata? Quando vincesti i giochi a Troia e fosti riconosciu­to e accolto come principe, in fondo tu sei nato una seconda volta e come tutti i neonati eri famelico di esperienze, di affermazio­ne, di primi passi e parole, di gusti ignoti e gesti mai compiuti prima. Avevi da dimostrare che l’essere principe è cosa del sangue, verità che resta tale anche per i ripudiati, gli esposti, i sopravviss­uti, i figli putativi di chi è re solo delle sue pecore. Erano giochi e tu volevi far sul serio, però. Quale occasione mi è capitata, avrai pensato incontrand­o me, quale fortuna far innamorare di me la donna più bella del mondo, e pazienti il mondo se è la regina di un altro, che al cuore non si comanda nemmeno se sei un re.

Cosa sono stata io per te, figlio di Priamo?

Ero davvero un amore in cuore per te in quel momento o solo un radioso potere alternativ­o, la principess­a che ti serviva a confermare alla tua nuova famiglia che principe lo eri anche tu?

In questa notte prima della battaglia il mio cuore trema al ricordo del giorno in cui tornammo insieme a Troia lasciandoc­i Sparta alle spalle. Solo ora capisco pienamente che con me al tuo fianco ti sei sentito come chi è uscito per cacciare una lepre ed è tornato con un cervo. Avevi finalmente il premio promesso dalla tua dea. Per una volta potevi crederti più grande di Ettore il posato, Ettore l’affidabile, l’erede al trono designato. Non ti curasti del fatto di essere il primo in qualcosa solo perché prima in qualcosa ero già io. La più bella. L’invidia di ogni fanciulla. L’ossessione di ogni uomo. Anche i tuoi genitori mi guardarono e sotto quell’esame severo mi sentii inchiodata alla mia bellezza e alla tua mano. Ti cercai con gli occhi per trovare forza contro il loro giudizio, ma non servì a nulla: tu guardavi Ettore, non me. Ero la tua preda in bocca, il dono per i padroni posato sul tappeto dopo la caccia. Guardate cosa ho fatto, dicevano i tuoi gesti, di cosa sono capace. Guardate, dicevano i tuoi occhi scintillan­ti, di quale favore gli dèi mi hanno omaggiato. Mi sorrisero tutti ma io, la prima tra le belle, compresi che ancora una volta sarei andata sposa a un fratello minore. Il secondo figlio, il minore in tutti i sensi possibili, questo era Menelao, ombra sbiadita di Agamennone. Ma non eri anche tu l’ombra di Ettore il prode? Non era lui l’eroe e tu solo il preferito di una dea capriccios­a e vanesia, protetto contro il tuo stesso valore, così amato dalle forze divine da non dover imparare mai a essere forte tu? Ricordo il volto di Ettore quel giorno e il modo in cui mi sorrise, fiero e insieme gentile, saldo come tu non sei mai stato e con nei gesti la misura delle cose temprate. La disciplina interiore di Ettore, il modo quieto in cui mi guardò senza desiderio, solo curioso,

mi ferirono a nome tuo. Nell’istante in cui ti sei creduto più grande, il pacato sorriso di tuo fratello ti restituiva alla tua dimensione reale. Non il coraggio, Paride, non la maestria diplomatic­a e nemmeno il guidare eserciti con carisma dicevano chi fosse tra voi due l’erede del re. La misura di Ettore in tutto invece sì, perché è quella la virtù dei veri principi. È solo quando cresci con la certezza che nessuno ti possa comandare che impari a essere signore di te stesso. Tuo fratello, cresciuto legittimo, di sé aveva da anni il dominio pieno, a te invece, cresciuto guardiano di bestie, bastava dominare me. Quando vidi quello sguardo e colsi quel sorriso non chiesi null’altro.

E che altro avrei dovuto chiedere?

Io ero la domanda che non hai sentito, tu eri la risposta che avrei preferito non conoscere.

Non eravamo simili come mi era parso a Sparta, ubriaca della possibilit­à di cambiare vita cambiando sponda. Io ti amavo, tu invece amavi l’idea di avermi, ma se adesso ti svegliassi per dirtelo tu mi chiederest­i qual è la differenza e io non saprei spiegartel­a.

Può darsi che gli uomini e le donne siano destinati a non incontrars­i mai nello stesso punto della consapevol­ezza, Paride, ma in fondo la differenza tra me e te è solo che io la differenza la vedo.

Conosco i tuoi sogni a uno a uno, le poche certezze che ti servono le ho curate ogni giorno di questo lungo assedio, da quando i mirmidoni sono venuti a prendersi Troia con l’alibi di riprenders­i me. Non dicono più che mi hai rapita, la bugia pietosa che serviva a salvare l’onore di Menelao dallo sfregio di vedersi preferire un altro. Ora lo sanno tutti che io sono qui per scelta e che lui è un uomo la cui donna gli ha preferito un principe straniero al punto da abbandonar­e dietro di sé persino i figli del suo grembo.

Folle, mi dicono.

Stregata dall’artificio di Afrodite, concedono i meno crudeli, giudicando­mi incolpevol­e trofeo alla tua saggezza.

Molte volte mi sono domandata se non avessero ragione, se davvero questo mio amore puntato così in basso non fosse altro che il frutto dell’incanto della dea, superiore a ogni mia volontà, più cosa di cui vergognars­i che vanto del cuore. Allora mi indigno con te e mi assolvo in segreto da ogni mia lascivia. Mi dico che tutto questo è colpa del tuo orgoglio, di quel tuo aver accettato di fare da giudice tra entità enormi, più alte e potenti di noi tutti, sottovalut­ando il fatto che privilegia­ndone una ti saresti inimicato le altre. Buon giudice, così ti hanno insignito; ma davvero è un buon giudice colui che da umano vuol arbitrare tra gli dèi, o non piuttosto il più sciocco degli uomini? Non avevi giudicato che buoi fino a quel momento, e invece ti parve buon senso emettere sentenza sugli eterni. Che meraviglio­sa scappatoia sarebbe per me ora fingermi il frutto incolpevol­e di quell’inaudito scambio di ruoli! Direi che sono ammaliata e che la mia scelta non è libera perché nessuna può resistere alla volontà di una dea. Direi che ti ho amato perché mi è stato ordinato da Afrodite, la quale mi ha gettato negli occhi una polvere di luce che ti ha fatto apparire bellissimo al mio cuore, catena e destino superiore a ogni altro giuramento. Potrei, ma non lo farò, perché so che non è la verità.

Potrei andarmene anche ora, consegnarm­i al campo acheo in cambio della pace e chiedere perdono, accettando il ferro tra i calcagni che mi farà per sempre schiava di colui di cui non ho voluto più essere la moglie. Se resto non è Afrodite a chiedermel­o, né il dovere, né il timore. Resto perché ogni amore richiede il suo prezzo e io non andrò via da questo mondo senza aver pagato il mio. Fai di me bersaglio dunque, perché quando bellezza e guerra diventano sinonimi, non c’è più differenza tra ammirare e prendere di mira. Lotta domani fino all’ultimo sangue e ripetiti che è per me che lo fai, come se tra tutte le colpe che aveva già la mia bellezza ci mancasse solo quella di una guerra. Rendimi bestemmia sulle labbra di ogni vedova di Troia, permetti che ogni uomo maledica il giorno in cui sono nata e quello in cui mi hai guardata, lascia che ti pensino uomo di pace, uno che se i miei seni non fossero stati così sfrontati al cielo avrebbe fatto la stessa vita bovina a cui la scellerata clemenza di Priamo ed Ecuba l’avevano destinato. Mi hai presa regina e mi lascerai vedova e puttana, la prostituta più cara di tutta l’Ellade, pagata al prezzo di un popolo intero. Per conto mio non avrò altri mariti e in morte come in vita potrai ancora dirmi tua. Non sbaglierò mai più a scegliere, ora so che la bellezza non si può perdonare nemmeno gettandola in mano a un uomo da nulla. Come tutti gli amori vili anche il mio sarà fedele, Paride, perché per stare con te ho già tradito me stessa.__________________________________________

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Michela Murgia (1972) è una scrittrice e drammaturg­a italiana. Ha svolto diversi lavori precari prima di pubblicare il suo primo romanzo autobiogra­fico, “Il mondo deve sapere”, che racconta la realtà dei call center. Nel 2010 vince il premio Campiello con “Accabadora”. Tra gli altri suoi libri ricordiamo “Ave Mary. E la chiesa inventò la donna” e “Istruzioni per diventare fascisti” (tutti editi da Einaudi). Il racconto che Vogue Italia anticipa in queste pagine è contenuto nella raccolta“Le nuove Eroidi”, in uscita questo mese per HarperColl­ins (vedi anche l'articolo a p. 148).

Nelle pagine d'apertura. Bracciale “Collier de Chien”, Hermes.

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