Come In Fuga Verso La Libertà
Dal cinema muto a Man Ray, Bresson, fino alle maschere di Dalí ne “La casa di carta”: breve storia di quando il crimine si fa simbolo di resistenza al potere.
Il 18 luglio, in Piazza Affari a Milano, accanto alla scultura L.O.V.E. di Maurizio Cattelan (il dito medio rivolto al Palazzo della Borsa), si è materializzato un enorme mezzobusto vestito di rosso che riproduce le fattezze di Salvador Dalí, simbolo della serie tv spagnola La casa
di carta. L’occasione è la presentazione della terza stagione, in onda su Netflix. Tra selfie con gli attori e cori intonati sulle note di Bella ciao, oltre cinquemila fan hanno assistito in anteprima a due dei nuovi episodi, che vedono tornare in azione la banda di rapinatori guidati a distanza dal Professore, abile stratega del crimine. Ancora una volta il presupposto per la buona riuscita del colpo è l’appoggio della popolazione, che per tutta la durata dell’azione manifesta a favore dei rapinatori fuori dal Banco de España, così come gli spettatori, che non faticano a simpatizzare per l’impresa ai danni di istituzioni simbolo della tecnocrazia statale, percepite come aliene e distanti. In tutto il mondo la maschera di Dalí sembra ormai aver raggiunto e superato la popolarità di quella di Guy Fawkes, altrettanto iconica, resa celebre dalla trasposizione cinematografica della graphic novel V per Vendetta, simbolo della resistenza contro la brutalità del potere.
Se la scelta di utilizzare un travestimento a immagine e somiglianza di Dalí sembra essere stata determinata da motivi più estetici che simbolici (pare fosse in lizza anche la maschera di Don Chisciotte), è curioso notare come lo stesso pittore spagnolo, insieme ai compagni del movimento surrealista, sia stato tra i primi a celebrare l’estetica della serialità cinematografica e il tema della criminalità come affermazione di libertà. A partire dalla metà degli anni Dieci, i (futuri) surrealisti riempiono i cinematografi per assistere alle imprese di Fantômas, antieroe e inafferrabile ladro senza volto che si fa beffe dell’ispettore Juve e di tutta la polizia parigina. O ancora, rivedono
entusiasti la serie di film muti (dieci in tutto) diretti da Louis Feuillade (lo stesso regista di Fantômas) sul modello dei romanzi a puntate, che narrano le peripezie della banda di criminali detti I Vampiri, coordinati a distanza dal capo e stratega Satanas e impegnati in una serie di furti spettacolari ai danni di banche e ricchi uomini d’affari. In cerca di una nuova mitologia moderna, i surrealisti vedono nelle profondità labirintiche dell’immoralismo e dello spirito criminale di Fantômas e de I Vampiri una dimensione libertaria in grado di contrastare l’egemonia borghese e le logiche di potere sottese allo scoppio delle guerre. «La vita costruita dalla civilizzazione occidentale non ha più senso di esistere, è tempo di immergersi nella notte interiore per trovare una nuova e profonda ragion d’essere», scrive il pittore André Masson ad André Breton, fondatore del Surrealismo, che nel Secondo Manifesto (1930) rincara: «L’atto surrealista più semplice consiste nello scendere in strada, revolver in pugno, a tirare a caso in mezzo alla folla». Il crimine come atto rivoluzionario di emancipazione entra nell’immaginario surrealista a ogni livello: il processo alla parricida Violette Nozière (1934), che ammette di aver avvelenato il padre per riscattare anni di abusi, o alle sorelle Papin (1933), che dopo aver trucidato la ricca famiglia presso la quale erano impiegate come domestiche sono tornate a dormire (e sognare!) come se nulla fosse, diventano l’occasione per celebrare “l’istinto libero e trionfante”, la sete vitalistica di libertà contro le ipocrisie della classe borghese.
Il sogno, terreno ingovernabile presieduto dall’inconscio, accoglie il crimine come manifestazione del desiderio, puro e incorrotto, trionfante sulle catene della morale: in uno dei suoi dipinti più noti, L’assassino minacciato (1927), René Magritte traspone in un’atmosfera enigmatica e onirica una scena di agguato estrapolata dal film Il morto che uccide (1913) di Feuillade, con protagonista Fantômas. Vicino ai surrealisti e allievo di Man Ray, Guy Bourdin è il primo fotografo a rilanciare questo repertorio di immagini mentali trasponendolo nei suoi scatti, fin dagli esordi sulle pagine di Vogue Paris nella seconda metà degli anni 50: le atmosfere spaesanti ed estetizzate che ne contraddistinguono l’opera sono un’eredità diretta dei surrealisti, così come la messa in scena della frammentazione del corpo e il gusto per un’estetica del delitto. In particolare con le campagne per Charles Jourdan, Bourdin realizza scene da film noir, intrise di sangue, furti e mistero. In una campagna pubblicitaria del 1977, il corpo della modella è scomparso: restano, a testimonianza della sua presenza, una scarpa rosa e un profilo di gesso sull’asfalto macchiato, indice inequivocabile di un delitto avvenuto. O ancora, in un’immagine pubblicitaria della primavera del 1968, una ragazza fugge inseguita goffamente da due poliziotti, portando sottobraccio un’abnorme scarpa gialla, evidentemente il bottino di un furto: nella sua enigmaticità (la scarpa è impossibile da indossare!) l’immagine apre alla riflessione sul valore feticistico della moda (laddove per feticcio intendiamo un oggetto il cui valore d’uso è annullato, a vantaggio del suo valore simbolico), spazio della forma pura del desiderio. Dalla punta dell’enorme scarpetta, oggetto di sogno, sembra proiettarsi verso l’esterno la strada per la libertà, il ponte di Brooklyn, come da una pentola d’oro l’arcobaleno. _____________________________