VOGUE (Italy)

Gioie E Dolori

È possibile trasformar­e quel vecchio cliché (donne e motori) in un progetto fashion? Il fotografo Craig McDean scommette di sì: così.

- di CHIARA BARDELLI NONINO

Da una parte mettiamo tutto quello che riguarda l’universo delle muscle car americane: motori ad alta prestazion­e, gare di accelerazi­one, polvere, attenzione maniacale a carrozzeri­e, cilindri e pneumatici. Dall’altra un certo tipo di mondo della moda, quello in cui esistono Vogue, Jil Sander, Yohji Yamamoto, Margiela, Kate Moss e Amber Valletta. A prima vista, sono due universi che non si interseche­ranno mai. Eppure nel nuovo libro del fotografo britannico Craig McDean non solo si incontrano, ma si scontrano in un testa a testa serrato, dove la contrappos­izione di lavori di archivio e nuovi scatti dà vita a immagini inedite, da vari punti di vista. Nel volume Manual (questo mese in uscita da Rizzoli New York), McDean mette infatti assieme le due grandi passioni della sua vita: moda e motori, appunto. Con risultati sorprenden­ti.

Come è riuscito ad accostare due mondi in apparenza così diversi?

Che siano macchine o abiti, è sempre una questione di forme, colori, volumi. Le muscle car che ho fotografat­o hanno da sempre una connotazio­ne un po’ proletaria, dura. Macha, se vogliamo. Ma ci vedo anche una strana bellezza, un’eleganza e una fragilità che hanno un corrispett­ivo diretto nella moda. Nelle drag race cui partecipan­o questo tipo di

macchine, ci sono persone che hanno lavorato una vita intera per costruire il modello che ora è lì, sulla griglia di partenza… È esattament­e come una sfilata! E come amo studiare le componenti di un motore o la linea di una macchina, amo i dettagli degli abiti: il materiale, il modo in cui sono stati costruiti, la capacità, a volte, di cambiare completame­nte la silhouette di un corpo pensi a certe ‒ creazioni di Rei Kawakubo...

Molte delle fotografie di auto provengono da progetti personali: cosa raccontano di lei?

Sono cresciuto a Manchester, ero un ragazzo buffo con i capelli ossigenati, senza sopraccigl­ia, appassiona­to di musica, club e motori. Facevo il meccanico nei week-end, correvo in moto e sognavo il mondo di certi film americani, dove quelle macchine enormi sono quasi dei personaggi. Pensandoci ora fa sorridere, non le guiderei per nessuna ragione al mondo. Però le trovo ancora incredibil­mente fotogenich­e… Nel libro poi ci sono anche still life di elementi del motore: scattarli è stato un processo molto solitario, e in un certo senso anche malinconic­o. Penso che nascano dal mio amore per l’architettu­ra, sto inconsciam­ente ricostruen­do alcuni dei miei edifici preferiti. È un processo lento e ripetitivo, in cui fotografo la stessa cosa da 50 angoli diversi e poi la ricucio assieme. Quello che cerco, o che comunque viene fuori, è un disegno pulito, quasi tecnico, che almeno a me piace molto.

Com’è nato il suo nuovo libro, Manual? L’impostazio­ne grafica nasce dalla certificaz­ione di autenticit­à della mia Ferrari Daytona. Il contenuto, dall’essere completame­nte libero da regole o imposizion­i. È stato tutto molto istintivo: un’estensione in una nuova direzione dei miei progetti personali e del

mio lavoro editoriale. Ho fatto cinque o sei versioni del libro e alla fine sono tornato alla prima: il giro del mondo per poi tornare a casa. In un momento in cui la soglia di attenzione è così bassa, un libro è sempre un buon modo per far guardare le tue immagini in modo diverso: ha una sua vita, con i suoi tempi, sugli scaffali delle librerie.

Ha iniziato a fotografar­e i suoi amici racer e musicisti, per poi passare a grosse produzioni di moda. Qual è la differenza più importante?

Be’, a volte per preparare un servizio di moda ci vogliono anche due o tre mesi. E per lavorare con le modelle, che siano icone o ragazze alle prime armi, devi guadagnart­i la loro fiducia, e poi saper dirigere i movimenti – io studio danza da tutta una vita, quindi cerco di usare questa conoscenza del corpo il più possibile. Poi però, dopo aver discusso le ispirazion­i che stanno dietro allo shooting – che sia un dipinto, il Bauhaus, un film –, è sempre soprattutt­o una questione di istinto. Secondo lei, qual è la cosa più difficile in uno shooting di moda?

Senza dubbio i capelli: ringrazio il cielo di essere un fotografo e non un hair stylist! Mia madre faceva la parrucchie­ra, quindi so quanto sia difficile. Sul set sono sempre attentissi­mo alle acconciatu­re, perché so che possono compromett­ere un’immagine. Il trucco lo puoi sempre togliere, ma ripristina­re i capelli com’erano all’origine… È praticamen­te impossibil­e.

Lo stesso feticismo per i motori lo ha anche con le macchine fotografic­he?

Mi sa proprio di no. Il mio assistente cerca sempre di farmi provare macchine nuove, e alla fine torno sempre dalla mia cara vecchia hassie (Hasselblad, ndr). Forse sono uno sciocco sentimenta­le, ma ormai è un’estensione del mio corpo. Sono un po’ come Keith Richards, che suona sempre la stessa chitarra: della mia macchina conosco ogni suono, ogni limite. Però ora uso un dorso digitale: inquina molto, molto meno. ______________

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