FORME ASSURDE E MISTERIOSE
Dal “Teléfono Afrodisíaco” di Salvador Dalí con un’aragosta al posto della cornetta al non proprio utilissimo ferro da stiro chiodato “Cadeau/Audace” di Man Ray, gli oggetti di uso quotidiano – opportunamente trasfigurati, scomposti, oppure accorpati tra loro a creare curiosi ibridi, sull’esempio dei ready-made di Marcel Duchamp – svolgono un ruolo centrale nell’immaginario surrealista. «A partire dagli anni 30, sulla scia dell’arte, anche gli oggetti di design, liberandosi dai soffocanti vincoli del funzionale e del contingente, prendono a dar voce alle forze della fantasia, del sogno e dell’inconscio, assumendo forme assurde e misteriose», spiega Mateo Kries, curatore di “Objects of Desire”, la più imponente mostra mai dedicata al legame tra Surrealismo e design, appena aperta al Vitra Design Museum di Weil am Rhein (fino al prossimo 19 gennaio). «Un connubio tra i più vitali e longevi nella storia del design, che – dal tavolino “Traccia” di Meret Oppenheim, con le sue due gambe a forma di zampa di gallina, passando per le sensuali sedute di Carlo Mollino e il design radicale di Piero Gilardi e Gaetano Pesce – arriva ai nostri giorni, continuando a ispirare designer contemporanei come Konstantin Grcic, Odd Matter Studio o il gruppo Front». A rispondere in maniera particolarmente entusiastica alla fascinazione surrealista per l’onirico è stata però, com’era prevedibile, quella branca del design più intimamente legata alla sfera del sogno: la moda. «Da subito, molti artisti surrealisti, Man Ray in primis, presero a lavorare come fotografi per le riviste patinate, come “Vogue” o “Harper’s Bazaar”, proponendo con successo un nuovo linguaggio visivo irriverente e radicale, spesso autoironico», spiega Kries, citando gli scatti di Lee Miller che ritraggono una modella in costume da bagno far bella mostra, in tutta serietà, di un tonno – accessoire non tra i più comuni. Tra i più proficui sodalizi all’interfaccia tra arte e moda vi fu poi quello tra Salvador Dalí e la stilista Elsa Schiaparelli, cui si devono due dei pezzi forti della mostra: l’“abito-scheletro”, un elegante memento mori di seta nera con rilievi trapuntati a forma di costole e, raro esempio di “fashion ready-made”, il “cappello scarpa” realizzato in collaborazione con Dalí: una calzatura da sfoggiare sulla testa a mo’ di copricapo, con uno sbarazzino tacco all’insù.