SUL TERRITORIO DELLA MEMORIA
Mario Botta ha una straordinaria capacità di leggere il passato e il presente, come capita di rado nella sua professione. Forse ispirato da uno dei suoi maestri, Le Corbusier, che sulla carta d’identità non si definiva “architetto” ma, in omaggio alla tradizione illuminista, “homme de lettres”, letterato, pensatore: intellettuale, si direbbe, con un’espressione ormai fuori moda. Ecco perché, ogni volta, la visita nel suo studio di Mendrisio, in Canton Ticino, è un’avventura nelle frontiere più avanzate del pensiero, non solo del progettare e del costruire – attività che svolge con energetica passione in ogni parte del mondo –, ma anche un dialogo aperto sulle arti in generale, in tutte le forme del contemporaneo, della scienza, della religione, della letteratura. Homme de lettres, si diceva, ben radicato nella storia, capace di rileggere anche il passato rinnovandone i significati. «L’architettura non è una scultura, l’architettura è qualcosa che si radica a una terra, a una geografia, a un contesto che porta con sé l’idea di una storia, e quindi di una memoria. Ecco allora che architettura e memoria sono due termini inscindibili, che di volta in volta assumono nella storia significati diversi. In questo momento storico, a me sembra che per resistere all’appiattimento, al livellamento imposto dal globale, il rapporto con il territorio della memoria diventi fondamentale», raccontava, in occasione della mostra “Mario Botta. Architettura e Memoria” che, partita nel 2011 dal Centre Dürrenmatt
Neuchâtel, ha girato il mondo.
«L’architettura apparentemente è una disciplina che si occupa dei problemi tecnici del costruire, del dare un tetto all’uomo, ma, di fatto, è sempre l’espressione formale della storia. Leggiamo le nostre architetture come forme della collettività, della società che le ha prodotte». È anche per questo, per il ruolo sociale attribuito alla sua professione che, nel
1996, è stato tra i fondatori, nella sua Mendrisio, di una scuola diversa dalle altre, l’Accademia di architettura, una delle cinque facoltà dell’Università della Svizzera Italiana.
«La scuola è nata, come sempre, da circostanze favorevoli e irripetibili. L’intuizione di questo profilo accademico è stata molto semplice. Per rispondere alla complessità e alla rapidità delle trasformazioni della cultura del moderno, per l’architetto sono più importanti le discipline umanistiche rispetto alle discipline tecniche. Quindi abbiamo rovesciato la gerarchia dell’insegnamento e creato una scuola per sollecitare problemi, invece di dare soluzioni, per leggere criticamente la realtà». Botta non si accontenta mai, ha sempre un nuovo pensiero, un nuovo pungolo, da trasformare in realtà. È così che per anni ha coltivato un sogno, costruire un Teatro dell’architettura all’interno dell’ateneo svizzero, per offrire uno strumento nuovo al dibattito culturale sulla disciplina che gli studenti di tutto il mondo vengono a imparare qui. Un dono alla città e alla comunità, per comprendere i cambiamenti e le trasformazioni del presente.
«Le nuove forme transdisciplinari di arte, moda, scrittura, design, fotografia, danza, cinema influenzano sempre più intensamente le attività in precedenza autonome e si rivolgono anche a una diversa figura di fruitore: un uomo libero, che accede alle nuove suggestioni del vivere, senza condizionamenti a priori», scrive nel testo “Perché un Teatro dell’architettura”. Il sogno si è realizzato con l’apertura ufficiale, a ottobre 2018 (e fino al 20/1/2019), della mostra “Louis Kahn e Venezia” nell’edificio progettato da Botta stesso. A pianta circolare, con tre piani fuori terra e due interrati, una superficie di tremila metri quadrati, è un unicum nel suo genere. E non dimentica la storia. Si ispira, infatti, alla tipologia del teatro anatomico, con gli spalti concentrici per gli studenti che trovavano posto attorno al tavolo di analisi. Un laboratorio, insomma, per “vivisezionare” le idee più ardite. Perfetto per accogliere la mostra dell’artista belga Koen Vanmechelen, “The Worth of Life 1982/2019”, che apre il 4 ottobre promossa da Fondazione Teatro dell’architettura (fino al 2/2/2020): in un percorso lungo quasi quarant’anni, l’artista ha affiancato progetti di ibridazione di animali o vegetali alla contaminazione delle arti figurative, dei materiali e degli strumenti espressivi.
Vanmechelen lavora tra biologia ed estetica, e si è dedicato allo sviluppo di un grande programma di ricerca per la generazione di nuove razze avicole, fino a creare un formidabile parco della biodiversità, chiamato Labiomista, progettato da Mario Botta alla periferia di Genk, dove convivono installazioni, opere e volatili delle specie più diverse. «È una gamma di bellezza raffinata, quella di Vanmechelen, ma vera, fuori dalla banalità, dal registro televisivo», spiega l’architetto ticinese. «Mi è parso autentico, uno che va a cercare le galline o le piume di pavone in giro per il mondo, insomma. In lui agisce il mondo fantastico di Hieronymus Bosch, una fantasia fiamminga, qualcosa di esoterico. È questo che mi ha colpito e indotto a costruire per lui». Architettura, memoria, natura e cultura. Tutto si tiene per l’“homme de lettres”.
Per Mario Botta l’architettura è l’espressione formale della storia. Un ruolo più umanistico che tecnico, indispensabile per leggere in modo critico la realtà ed elaborare soluzioni. Per questo ha costruito un teatro laboratorio dove presentare le idee più ardite.