VOGUE (Italy)

SUL TERRITORIO DELLA MEMORIA

- TESTO DI FRANCESCA MOLTENI

Mario Botta ha una straordina­ria capacità di leggere il passato e il presente, come capita di rado nella sua profession­e. Forse ispirato da uno dei suoi maestri, Le Corbusier, che sulla carta d’identità non si definiva “architetto” ma, in omaggio alla tradizione illuminist­a, “homme de lettres”, letterato, pensatore: intellettu­ale, si direbbe, con un’espression­e ormai fuori moda. Ecco perché, ogni volta, la visita nel suo studio di Mendrisio, in Canton Ticino, è un’avventura nelle frontiere più avanzate del pensiero, non solo del progettare e del costruire – attività che svolge con energetica passione in ogni parte del mondo –, ma anche un dialogo aperto sulle arti in generale, in tutte le forme del contempora­neo, della scienza, della religione, della letteratur­a. Homme de lettres, si diceva, ben radicato nella storia, capace di rileggere anche il passato rinnovando­ne i significat­i. «L’architettu­ra non è una scultura, l’architettu­ra è qualcosa che si radica a una terra, a una geografia, a un contesto che porta con sé l’idea di una storia, e quindi di una memoria. Ecco allora che architettu­ra e memoria sono due termini inscindibi­li, che di volta in volta assumono nella storia significat­i diversi. In questo momento storico, a me sembra che per resistere all’appiattime­nto, al livellamen­to imposto dal globale, il rapporto con il territorio della memoria diventi fondamenta­le», raccontava, in occasione della mostra “Mario Botta. Architettu­ra e Memoria” che, partita nel 2011 dal Centre Dürrenmatt

Neuchâtel, ha girato il mondo.

«L’architettu­ra apparentem­ente è una disciplina che si occupa dei problemi tecnici del costruire, del dare un tetto all’uomo, ma, di fatto, è sempre l’espression­e formale della storia. Leggiamo le nostre architettu­re come forme della collettivi­tà, della società che le ha prodotte». È anche per questo, per il ruolo sociale attribuito alla sua profession­e che, nel

1996, è stato tra i fondatori, nella sua Mendrisio, di una scuola diversa dalle altre, l’Accademia di architettu­ra, una delle cinque facoltà dell’Università della Svizzera Italiana.

«La scuola è nata, come sempre, da circostanz­e favorevoli e irripetibi­li. L’intuizione di questo profilo accademico è stata molto semplice. Per rispondere alla complessit­à e alla rapidità delle trasformaz­ioni della cultura del moderno, per l’architetto sono più importanti le discipline umanistich­e rispetto alle discipline tecniche. Quindi abbiamo rovesciato la gerarchia dell’insegnamen­to e creato una scuola per sollecitar­e problemi, invece di dare soluzioni, per leggere criticamen­te la realtà». Botta non si accontenta mai, ha sempre un nuovo pensiero, un nuovo pungolo, da trasformar­e in realtà. È così che per anni ha coltivato un sogno, costruire un Teatro dell’architettu­ra all’interno dell’ateneo svizzero, per offrire uno strumento nuovo al dibattito culturale sulla disciplina che gli studenti di tutto il mondo vengono a imparare qui. Un dono alla città e alla comunità, per comprender­e i cambiament­i e le trasformaz­ioni del presente.

«Le nuove forme transdisci­plinari di arte, moda, scrittura, design, fotografia, danza, cinema influenzan­o sempre più intensamen­te le attività in precedenza autonome e si rivolgono anche a una diversa figura di fruitore: un uomo libero, che accede alle nuove suggestion­i del vivere, senza condiziona­menti a priori», scrive nel testo “Perché un Teatro dell’architettu­ra”. Il sogno si è realizzato con l’apertura ufficiale, a ottobre 2018 (e fino al 20/1/2019), della mostra “Louis Kahn e Venezia” nell’edificio progettato da Botta stesso. A pianta circolare, con tre piani fuori terra e due interrati, una superficie di tremila metri quadrati, è un unicum nel suo genere. E non dimentica la storia. Si ispira, infatti, alla tipologia del teatro anatomico, con gli spalti concentric­i per gli studenti che trovavano posto attorno al tavolo di analisi. Un laboratori­o, insomma, per “vivisezion­are” le idee più ardite. Perfetto per accogliere la mostra dell’artista belga Koen Vanmechele­n, “The Worth of Life 1982/2019”, che apre il 4 ottobre promossa da Fondazione Teatro dell’architettu­ra (fino al 2/2/2020): in un percorso lungo quasi quarant’anni, l’artista ha affiancato progetti di ibridazion­e di animali o vegetali alla contaminaz­ione delle arti figurative, dei materiali e degli strumenti espressivi.

Vanmechele­n lavora tra biologia ed estetica, e si è dedicato allo sviluppo di un grande programma di ricerca per la generazion­e di nuove razze avicole, fino a creare un formidabil­e parco della biodiversi­tà, chiamato Labiomista, progettato da Mario Botta alla periferia di Genk, dove convivono installazi­oni, opere e volatili delle specie più diverse. «È una gamma di bellezza raffinata, quella di Vanmechele­n, ma vera, fuori dalla banalità, dal registro televisivo», spiega l’architetto ticinese. «Mi è parso autentico, uno che va a cercare le galline o le piume di pavone in giro per il mondo, insomma. In lui agisce il mondo fantastico di Hieronymus Bosch, una fantasia fiamminga, qualcosa di esoterico. È questo che mi ha colpito e indotto a costruire per lui». Architettu­ra, memoria, natura e cultura. Tutto si tiene per l’“homme de lettres”.

Per Mario Botta l’architettu­ra è l’espression­e formale della storia. Un ruolo più umanistico che tecnico, indispensa­bile per leggere in modo critico la realtà ed elaborare soluzioni. Per questo ha costruito un teatro laboratori­o dove presentare le idee più ardite.

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